21 luglio 2019
Appunti sullo Stretto di Hormuz
Agi.it 20/7
Lo Stretto di Hormuz, dove i pasdaran iraniani hanno annunciato il sequestro di una petroliera britannica, rappresenta il più importante e strategico passaggio per i flussi petroliferi mondiali: quello che lo scià Reza Pahlavi chiamava la "vena giugulare" dell’antica Persia, lo è diventato per l’approvvigionamento energetico del pianeta. Per questo motivo non è stato mai chiuso alle petroliere neanche per i primi tumulti della Rivoluzione islamica, tra il 1978 e il 1981, o durante la guerra con l’Iraq tra il 1980 e il 1988.
Situato tra il Sultanato dell’Oman e la Repubblica Islamica di Iran, mette in connessione il Golfo Persico con il Golfo di Oman e, quindi, con il Mar Arabico e l’Oceano Indiano. Di fatto, grandi produttori come Arabia Saudita, Iraq, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Qatar ed Iran usufruiscono dello Stretto per la maggior parte delle proprie esportazioni. Vi transitano quotidianamente milioni di barili al giorno, pari grosso modo al 35% di tutto il greggio commerciato via mare ed al 20% del totale.
Il petrolio è in gran parte diretto verso i mercati asiatici, in particolare Giappone, India, Sud Corea e Cina. Nel suo punto più stretto il passaggio raggiunge 34 km, tuttavia la larghezza dei corridoi di navigazione in entrambe le direzioni è di poco superiore ai 3 km, separate da una zona "cuscinetto" di altri 3 km.
Recentemente, la Repubblica Iraniana ha minacciato di sfruttare la propria posizione strategica e la propria potenza navale per chiudere lo Stretto e bloccare i flussi petroliferi come forma di ritorsione nel caso in cui le venissero imposte ulteriori sanzioni economiche da parte degli Stati Uniti.
Una eventualità che molti esperti escludono: vuoi per l’incapacità pratica dell’Iran di chiudere lo Stretto e bloccare le enormi navi-cisterne; vuoi per i danni che una tale scelta produrrebbe sulla sua stessa economia (il commercio via mare costituisce il 99% dell’export iraniano che a sua volta rappresenta il 65% delle entrate governative).
***
Bernardo Valli, la Repubblica 21/7
Le premesse per un nuovo, ampio conflitto in Medio Oriente non mancano. L’Iran è nell’occhio del ciclone. Droni abbattuti nel suo cielo, navi occidentali sequestrate dai Guardiani della rivoluzione nello Stretto di Hormuz, minacce quotidiane di Donald Trump che si alternano a larvate proposte di distensione. Non di pace: di pace non se ne parla. Difficile stabilire chi abbia il primato delle provocazioni. Teheran o le capitali nemiche? Washington? Riad? Gerusalemme?
Le guerre civili nella regione sono inarrestabili, sono focolai inestinguibili e micidiali che possono annunciare un esteso incendio imminente. Sono già di per sé confronti armati in cui sono impegnati paesi che non si sono ancora dichiarati la guerra. Nello Yemen si affrontano le milizie houthi sostenute dal regime sciita degli ayatollah e le forze saudite e quindi sunnite. Quest’ultime hanno spesso l’appoggio aereo americano, e sono rifornite in armi, dietro pagamento si intende, da Francia, Italia e Inghilterra. Gli europei non hanno comportamenti solari. La loro ambiguità è evidente: da un lato Francia, Inghilterra e Germania, a differenza degli Stati Uniti, mantengono l’impegno che prevede la limitazione delle ricerche nucleari iraniane e il simultaneo progressivo abbassamento delle sanzioni, e dall’altro forniscono (esclusa la Germania) armi ai sauditi che combattono nello Yemen le milizie sciite sostenute da Teheran. Secondo il Guardian, Londra ha fornito ai sauditi, oltre agli aerei, anche degli addestratori. Di recente avrebbe però sospeso l’impegno o l’avrebbe drasticamente ridotto. Il timore di un conflito aperto con l’Iran ha spinto anche gli Emirati arabi uniti a ritirare le truppe impegnate nello Yemen a fianco dei sauditi. L’odor di guerra fa paura. I paesi piccoli non vogliono essere coinvolti.
In Siria non si riesce a spegnere del tutto la rissa sanguinosa. L’aviazione israeliana insegue puntualmente le milizie iraniane alleate del regime di Damasco. Non le vuole in prossimità dei suoi confini e non vede di buon occhio Bashar al Assad, il rais alauita imparentato con gli sciiti di Teheran. Assad rivendica tra l’altro le alture siriane del Golan, conquistate nel 1967 dagli israeliani che le hanno annesse di recente con l’approvazione del presidente americano.
Il dissidio tra sciiti e sunniti risale alle origini dell’Islam, quando fu decisa la discendenza del Profeta, ma nel presente il confronto tra le due grandi correnti musulmane non è di stampo religioso. L’alimentano interessi politici e petroliferi. Grande paese produttore, in seguito alle sanzioni riattivate e aggravate dagli Stati Uniti, l’Iran ha visto le sue esportazioni precipitare da due milioni e mezzo di barili al giorno a trecentoquarantottomila. Il paese ne risente pesantemente. La Guida suprema, Ali Khamenei, sostiene la linea intransigente, che ha condotto il governo di Teheran ad aumentare il ritmo delle ricerche nucleari in risposta al ripristino e all’appesantimento delle sanzioni. Secondo gli esperti questo non condurrebbe tanto presto a una bomba atomica. Ci vorrebbe almeno un anno per un primo esemplare, e ancora di più per averne un numero sufficiente sul piano militare. E comunque Teheran esclude l’intenzione di voler possedere armi nucleari. C’è persino chi, giudicando insopportabili le sanzioni, vuole trattare al più presto con gli americani senza porre condizioni pesanti. Poter riportare le esportazioni di petrolio a un milione e mezzo di barili al giorno (un milione di meno che nel passato) basterebbe per accendere un dialogo. Donald Trump conta sulle crepe apertesi nel regime, con la speranza che gli siano fatali.
Gli Stati Uniti di Trump stringono il laccio al collo degli iraniani, si denuncia a Teheran. Dopo la presidenza distensiva di Barack Obama, la super potenza è ridiventata il Grande Satana. Cinquecento soldati americani sono appena stati assegnati alla Prince Sultan Air Base, in Arabia Saudita, con il compito di dedicarsi al sistema antimissilistico. Un passo verso la guerra o un semplice gesto di Trump per mantenere la tensione e intimidire gli ayatollah? A spingere Trump ad aprire un conflitto con l’Iran sono in particolare il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e il potente principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman. Ma non è detto che, nonostante le ripetute minacce, il presidente americano sia disposto a un’avventura bellica di quella portata. L’Iran degli ayatollah sarebbe un avversario assai più temibile di quello che fu l’Iraq di Saddam Hussein.
Vladimir Putin adotta una tattica più sottile e anche più efficace di quella di Trump. La Russia ha rafforzato le sue posizioni in Medio Oriente, dove è ritornata a essere, almeno nella regione, una potenza che conta. In questa crisi Putin è quasi un arbitro. È invece un protagonista Israele, che pur non avendo rapporti diplomatici con l’Arabia Saudita, è un elemento importante del fronte anti iraniano. E questo significa un passo verso l’integrazione, non si sa quanto duratura, dello Stato ebraico nel mondo arabo.
La nuova crisi mediorientale ci riporta con la memoria a quelle precedenti. In particolare al 2003, quando fu invaso l’Iraq di Saddam Hussein, accusato di possedere armi di distruzione di massa. Armi che poi risultarono inesistenti. Altrettando infondata, secondo gli esperti e le agenzie incaricate della sorveglianza, è l’accusa rivolta all’Iran di non rispettare i limiti posti nel nucleare dall’accordo del 2015, quando Barack Obama era alla Casa Bianca.
***
il Post 21/7
Lo scorso 20 giugno gli Stati Uniti sono andati vicinissimi ad attaccare l’Iran. Dopo avere approvato un’operazione militare come ritorsione per l’abbattimento di un drone statunitense, il presidente Donald Trump ha cambiato idea all’ultimo minuto, annullando un bombardamento che avrebbe potuto portare a una rapida e significativa escalation nella regione del Golfo Persico. Si è discusso molto sul perché della decisione di Trump, ma al di là di come siano andate davvero le cose, quello del 20 giugno è stato il momento di massima tensione nella crisi in corso tra Iran e Stati Uniti, ma non l’unico.
È una storia che dura da diversi mesi, che coinvolge in maniera diretta molti paesi del mondo, tra cui quelli europei, e che non sembra avere di fronte una facile via d’uscita e che continua ad avere sviluppi, come nel caso della petroliera britannica sequestrata venerdì nello stretto di Hormuz. È iniziata l’8 maggio 2018 con un annuncio non così inaspettato di Donald Trump: gli Stati Uniti si ritiravano dall’accordo sul nucleare iraniano, la cui firma era stata considerata da molti come uno dei successi più importanti dell’amministrazione di Barack Obama. Per capire quello che sta succedendo oggi bisogna partire da lì, dall’accordo sul nucleare, dai motivi dei suoi sostenitori e dei suoi critici e dalle aspettative e incomprensioni delle parti coinvolte.
Cos’è l’accordo sul nucleare e perché è così importante?
L’accordo sul nucleare iraniano fu firmato nel luglio 2015 alla fine di lunghi e faticosi negoziati tra l’Iran e i paesi del cosiddetto “5+1”, cioè i membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU con potere di veto (Regno Unito, Francia, Stati Uniti, Russia e Cina) più la Germania. Fu definito fin da subito “storico” dalla grande maggioranza dei giornalisti e degli analisti di tutto il mondo. Si basava infatti su un’idea che non aveva mai trovato davvero applicazione dalla Rivoluzione in Iran del 1979, che aveva rovesciato un regime amico dell’Occidente: che fosse meglio dialogare e fare accordi con i religiosi iraniani, anche se intransigenti e ostili, invece che fare loro la guerra sotto forma di minacce e sanzioni internazionali.
L’accordo si basava su uno scambio: l’Iran avrebbe ridotto in maniera significativa la sua capacità di arricchire l’uranio, privandosi così della possibilità di costruire la bomba nucleare, mentre gli altri paesi firmatari si impegnavano a rimuovere le sanzioni imposte negli anni precedenti a causa del presunto programma nucleare militare iraniano. Il governo iraniano avrebbe anche accettato di ricevere ispezioni regolari in tutte le sue centrali nucleari, un tema che era stato oggetto di grande discussione durante i negoziati.
Il principale fautore dell’accordo era stato l’allora presidente statunitense Barack Obama, i cui obiettivi erano due: da una parte costringere l’Iran a rinunciare ai suoi progetti militari sul nucleare senza usare le maniere forti, che si erano rivelate poco efficaci fino a quel momento; dall’altra rinforzare l’ala più moderata del regime iraniano, che aveva fortemente voluto l’accordo – molto popolare in Iran – e che faceva capo al presidente Hassan Rouhani e al ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif. L’ala più moderata del regime era anche quella più disposta in generale ad avere rapporti meno conflittuali con l’Occidente, a differenza dell’ala più conservatrice, guidata da qAli Khamenei, la Guida suprema, cioè la carica politica e religiosa più importante in Iran.
I critici dell’intesa – tra cui il governo di Israele e da subito Donald Trump, influenzato dalle idee dei politici statunitensi più conservatori – accusavano invece Obama di avere concluso un pessimo accordo, nonché sfavorevole agli interessi statunitensi. In particolare sostenevano due cose: che l’accordo andasse rivisto, perché con i profitti ottenuti dal commercio di beni non più sotto embargo l’Iran avrebbe continuato a sviluppare il suo programma missilistico e a finanziare le campagne militari in altri paesi del Medio Oriente; e che avvicinarsi all’Iran avesse danneggiato i rapporti degli Stati Uniti con alcuni dei suoi alleati tradizionali più importanti della regione, come Israele e l’Arabia Saudita, contrari all’intesa. Per Obama, comunque, erano rischi che valeva la pena correre pur di stabilizzare l’area.
C’è una cosa importante da tenere a mente: l’accordo non risolveva le ostilità tra Stati Uniti e Iran, e più in generale tra Occidente e Iran. Prendeva uno dei temi che più avevano alimentato quelle ostilità – il presunto programma nucleare militare iraniano – e lo regolava per un certo periodo di tempo. Rimanevano fuori molte altre questioni importanti, per esempio l’appoggio iraniano a gruppi terroristici (come il libanese Hezbollah) e regimi avversari degli Stati Uniti (come il regime siriano di Bashar al Assad).
Il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo, e l’inizio dei guai
Fin dal suo insediamento alla Casa Bianca, Trump fu molto critico nei confronti dell’accordo firmato da Obama, anche se nei primi mesi di presidenza non sembrò avere l’intenzione di far saltare tutto. L’8 maggio 2018, però, annunciò che gli Stati Uniti si sarebbero ritirati dall’accordo, nonostante non ci fosse stata alcuna violazione dei termini del trattato da parte dell’Iran. Tre mesi dopo comunicò la reintroduzione delle sanzioni che erano state rimosse da Obama, tra moltissime proteste degli altri paesi firmatari tra cui Germania, Francia e Regno Unito.
Non è semplice decifrare le scelte di politica estera di Trump, che difficilmente hanno dietro una precisa strategia.
La decisione di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare fu probabilmente condizionata da diverse cose: tra le altre, la convinzione che il trattato del 2015 non fosse davvero vantaggioso per gli Stati Uniti e la volontà di indebolire la legacy di Obama, cioè la sua eredità politica. In generale, l’impressione di molti è che Trump fosse convinto – o si fosse lasciato convincere – che il governo iraniano avrebbe ceduto presto alla pressione delle sanzioni statunitensi e che avrebbe chiesto al governo americano di tornare a trattare per arrivare a un nuovo accordo, che questa volta sarebbe stato più favorevole agli Stati Uniti. Secondo alcuni, l’obiettivo di Trump in realtà era ancora più ambizioso: favorire un cosiddetto regime change, un cambio di regime, che trasformasse l’Iran in un paese non più nemico degli Stati Uniti.
Trump si fece anche influenzare dai leader dei due più importanti alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente, fortemente contrari all’accordo: Israele e Arabia Saudita.
Israele, tradizionalmente molto vicino ai Repubblicani statunitensi, aveva protestato in ogni modo possibile contro l’accordo, perché sosteneva che non avrebbe impedito all’Iran di ottenere l’arma nucleare nel lungo periodo e al tempo stesso gli avrebbe permesso di rinforzarsi senza più le sanzioni. Nel marzo 2015 il primo ministro israeliano, il conservatore Benjamin Netanyahu, pronunciò un discorso molto duro di fronte al Congresso americano, proprio su invito dei Repubblicani, e la questione del nucleare divenne il motivo più rilevante, anche se non l’unico, della crescente inimicizia tra lui e Barack Obama. Con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca le cose cambiarono radicalmente e Netanyahu cominciò a sfruttare gli storici rapporti di amicizia con i Repubblicani per influenzare le politiche mediorientali di Trump, allora come oggi non particolarmente strutturate.
Trump decise di ritirarsi dall’accordo anche a causa delle pressioni dell’Arabia Saudita, che aveva timori simili a quelli israeliani e in generale si opponeva alle esportazioni di petrolio iraniano che sarebbero ricominciate con la rimozione delle sanzioni. Come era successo con Netanyahu, anche i rapporti tra Obama e la leadership saudita erano rovinati da un pezzo e subirono una svolta con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca. Stupendo un po’ tutto il mondo, Trump fece il suo primo viaggio ufficiale fuori dagli Stati Uniti proprio in Arabia Saudita, rafforzando così un’alleanza che sarebbe diventata in seguito una delle più importanti della sua politica estera.
In altre parole, Trump iniziò la sua presidenza con l’idea di fare tutto il contrario di quanto aveva fatto Obama negli otto anni precedenti in molti ambiti, tra cui l’accordo sul nucleare iraniano.
L’escalation con l’Iran
Dopo la reintroduzione delle sanzioni statunitensi all’Iran, i rapporti tra i due paesi peggiorarono. Gli incidenti più gravi sono iniziati a metà del 2019, con frequenza e intensità preoccupanti.
Il 12 maggio quattro petroliere sono state attaccate al largo degli Emirati Arabi Uniti, vicino allo stretto di Hormuz, dove passa un terzo del commercio mondiale di petrolio: gli Stati Uniti hanno incolpato l’Iran, che un mese prima aveva detto che se gli Stati Uniti avessero bloccato tutte le esportazioni iraniane avrebbe interrotto il flusso di petrolio nello stretto. Due giorni dopo due stazioni di pompaggio del petrolio saudite sono state colpite in un attacco di droni rivendicato dai ribelli yemeniti houthi, alleati dell’Iran e nemici dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti.
Il 13 giugno, circa un mese dopo, c’è stato un altro attacco a due petroliere nel Golfo dell’Oman, che collega il mar Arabico con lo stretto di Hormuz: il governo statunitense ha diffuso video e immagini che sembrano incolpare i soldati delle Guardie Rivoluzionarie, la forza militare più potente dell’Iran, considerata molto vicina agli ambienti ultraconservatori iraniani e definita un gruppo terroristico dagli Stati Uniti. Una settimana dopo, il 20 giugno, le Guardie Rivoluzionarie hanno annunciato di aver abbattuto un drone spia americano nel loro spazio aereo (non è chiaro se il drone fosse davvero nello spazio aereo iraniano), provocando la reazione del governo statunitense, che, come detto, è andato a un passo dalla ritorsione militare.
I momenti di tensione sono andati avanti anche a luglio. All’inizio del mese tre navi iraniane hanno provato a impedire il passaggio di una petroliera britannica nello stretto di Hormuz, mentre pochi giorni dopo il Regno Unito ha bloccato una petroliera a Gibilterra perché trasportava petrolio iraniano. Venerdì 19 luglio, infine, le navi delle Guardie rivoluzionarie hanno sequestrato nello stretto di Hormuz la Stena Impero, una petroliera britannica con un equipaggio interamente straniero. La nave è stata accusata di aver ver infranto tre leggi marittime: aver spento il GPS, essere entrata nello stretto di Hormuz nel tratto di mare sbagliato, e aver ignorato gli avvertimenti. Ma il sequestro è evidentemente collegato alle tensioni precedenti e in particolare al blocco della petroliera iraniana a Gibilterra.
L’Iran ha inoltre violato per la prima volta l’accordo del 2015, in due occasioni: prima superando il limite di riserve di uranio arricchito previsto dall’intesa, e poi iniziando a produrre uranio arricchito oltre il 3,67 per cento. Gli altri paesi firmatari hanno considerato finora le violazioni iraniane non sufficienti per far saltare l’accordo, perché non avvicinano davvero l’Iran alla costruzione dell’arma nucleare: sono parte di un gioco, hanno sostenuto diversi analisti, in cui ognuno fa una mossa e poi aspetta di vedere la mossa degli altri.
I rischi di questo gioco però sono molti. Il più grande è che la mossa di una parte sia male interpretata dall’altra, e che una semplice provocazione possa portare a una vera risposta militare, facendo iniziare una guerra non voluta da nessuno: è lo scenario a cui siamo andati molto vicini prima che Trump cambiasse idea e fermasse l’attacco contro l’Iran pochi minuti prima del suo inizio, il 20 giugno scorso.
I tentativi dell’Europa di salvare il salvabile
Nonostante gli ultimi mesi di grandi tensioni, l’accordo sul nucleare del 2015 è rimasto in piedi per tutti i paesi che l’avevano firmato, a eccezione degli Stati Uniti, anche se non con poche difficoltà: gli stati europei non hanno reintrodotto le sanzioni che avevano cancellato con l’accordo, e l’Iran non è venuto davvero meno ai suoi impegni in materia di nucleare. Potrebbe però non durare e c’è un ma.
Quello che si chiedono in molti da mesi è: l’accordo sul nucleare, cioè il massimo risultato di un nuovo modo di approcciarsi al regime teocratico iraniano, può sopravvivere senza Stati Uniti? Non c’è una risposta definitiva, ma da quello che si è visto una cosa si può dire: che probabilmente non può sopravvivere con l’opposizione degli Stati Uniti.
Il governo Trump ha fatto di tutto per far saltare l’accordo. Lo scorso aprile, per esempio, non ha rinnovato le esenzioni concesse a otto paesi per continuare a importare petrolio iraniano, la più importante fonte di entrate per l’Iran. Reintroducendo le sanzioni, inoltre, ha di fatto reso molto rischioso per le aziende europee continuare a fare affari in territorio iraniano. Le sanzioni statunitensi sono infatti particolari: oltre a una componente primaria, diretta a società e individui statunitensi, hanno anche una componente “extraterritoriale”, che si rivolge ai soggetti non americani. Questa componente prevede che qualsiasi società, ovunque abbia la sede, debba rispettare le sanzioni americane quando vengono usati i dollari per compiere le transazioni – cioè quasi sempre – e quando le stesse aziende hanno succursali negli Stati Uniti o sono controllate da americani.
Francia, Germania e Regno Unito, i tre paesi europei firmatari dell’accordo, hanno provato a mettere in piedi un meccanismo finanziario per aggirare l’extraterritorialità delle sanzioni americane e trovare una soluzione allo strapotere del dollaro: da qualche settimana hanno avviato INSTEX (sigla di Instrument in Support of Trade Exchanges), che però ha già mostrato tutti i suoi limiti. Finora è stato possibile usarlo solo per i trasferimenti di prodotti umanitari, comunque non sottoposti alle sanzioni statunitensi, mentre sembra improbabile che verrà esteso al commercio di beni sotto embargo, come per esempio il petrolio. Uno dei motivi è che le aziende europee che operano in questi settori hanno preferito non rischiare di essere colpite dalle sanzioni americane e si sono già ritirate dal mercato iraniano.
Il problema è che l’Iran ha già minacciato più volte di ritirarsi definitivamente dall’accordo se l’Europa non troverà un modo per garantire un certo volume di commercio e la sostenibilità delle transazioni.
«Donald Trump sta forzando l’Europa a confrontarsi con le sue debolezze», ha scritto il giornalista Tom McTague sull’Atlantic, parlando delle difficoltà dell’Europa a trovare una soluzione all’extraterritorialità delle sanzioni americane: «l’euro non può essere un’alternativa credibile al dollaro come moneta di riserva fino a che non sarà radicalmente riformato, e senza una moneta di riserva credibile il sistema finanziario europeo potrebbe non riuscire a pareggiare quello statunitense». In altre parole: nel caso dell’Iran, i paesi europei non sembrano avere gli strumenti per poter sviluppare una politica estera autonoma dagli Stati Uniti.
Ma almeno la strategia di Trump sta funzionando?
Non si direbbe, al momento, per diverse ragioni. La «massima pressione» che il governo statunitense dice di stare esercitando sul regime iraniano con le sanzioni e con l’escalation di tensione degli ultimi mesi non ha portato finora né a un regime change né a nuovi negoziati.
La strategia di Trump – se di strategia si può parlare – si basa infatti su una scommessa: che il regime iraniano collassi oppure che si convinca che la cosa migliore sia tornare a negoziare alle condizioni americane, nonostante abbia detto e ripetuto che non lo farà. Diversi analisti – tra cui Philip Gordon, funzionario che nell’amministrazione Obama si occupava di Medio Oriente e che contribuì alla stesura del testo dell’accordo sul nucleare – sostengono che il governo Trump stia cercando disperatamente un segnale che dica che la strategia americana in Iran sta funzionando. Martedì scorso, per esempio, il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha sostenuto che l’Iran si era detto disponibile a negoziare «per la prima volta» sul suo programma missilistico: sembrava fin da subito una concessione enorme da parte iraniana, ed estremamente improbabile arrivati al punto in cui siamo ora, ma che era stata ripresa immediatamente da diversi commentatori filo-Trump per sostenere che il governo americano era sulla strada giusta. Pompeo però aveva travisato le parole del ministro degli Esteri iraniano, che lo aveva smentito poco dopo.
Secondo i più critici, oltre a sovrastimare l’efficacia delle sanzioni, strumento con cui le precedenti amministrazioni americane avevano ottenuto ben poco dall’Iran, Trump avrebbe fatto i conti male su altre due cose: sulla difficoltà a gestire l’escalation di tensione nel Golfo, e sul rafforzamento degli ultraconservatori in Iran, cioè quella fazione meno incline a negoziare con l’Occidente.
Per quanto riguarda il primo punto, ha scritto Erin Cunningham, giornalista del Washington Post esperta di Iran, gli alleati di Trump nell’area del Golfo Persico non hanno una posizione comune sul cosa fare in caso di conflitto con l’Iran. Molti di loro, e non solo i più piccoli, hanno già mostrato di voler continuare a fare affidamento sugli Stati Uniti per la propria sicurezza e per la sicurezza delle navi che transitano attraverso lo stretto di Hormuz. La loro non è solo una questione di mancanza di volontà: come ha spiegato lungamente sull’Atlantic Andrew Exum, che lavorò per la Difesa sotto l’amministrazione Obama, gli alleati degli Stati Uniti nel Golfo Persico non hanno mai sviluppato una capacità militare all’altezza dell’enorme quantità di armi che i governi americani hanno venduto loro per anni: «Nel caso di una guerra con l’Iran, è probabile che chiederemmo ai nostri partner del Golfo di non mettersi in mezzo e stare alla larga».
Il problema però è che Trump ha fatto capire in più di un’occasione di non essere più disposto a pagare di tasca propria per la sicurezza degli alleati (lo ha detto e ripetuto per esempio riferendosi alla NATO).
Trump non è un esperto di politica estera: non conosce nulla dei processi diplomatici, pensa che il modo migliore di risolvere crisi complesse sia usare l’approccio personale e soprattutto ha posizioni molto isolazioniste e nazionaliste, nonostante nella sua amministrazione ci siano diversi “falchi”, cioè politici con idee molto aggressive, come il consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton e il segretario di Stato Mike Pompeo. Come ha scritto il New York Times dopo l’annullamento dell’attacco contro l’Iran dello scorso 20 giugno, Trump ha già esitato più volte «a premere il grilletto: nonostante la sua personalità pubblica sia belligerante e conflittuale, è successo che Trump si tirasse indietro dall’uso della forza, convinto che gli Stati Uniti abbiano sprecato troppe vite e troppi soldi in inutili guerre in Medio Oriente, e timoroso di ripetere gli errori compiuti dai suoi predecessori».
Il rischio quindi è che l’escalation con l’Iran finisca per infilare Trump in una situazione complicata, e lo costringa a fare una scelta che in nessun caso avrebbe conseguenze positive per il suo governo: o scaricare i propri alleati nel Golfo – e finora Trump ha fatto di tutto per tenerseli vicini, come ha dimostrato l’intero caso Khashoggi – o farsi carico della loro sicurezza, scenario però completamente in contrasto con le sue idee e che potrebbe far arrabbiare i suoi sostenitori più isolazionisti. Per il momento Trump non si è ancora tirato indietro, e sembra intenzionato a rafforzare la presenza militare statunitense in Arabia Saudita in funzione anti-Iran. È difficile però dire fino a che punto sia disposto ad arrivare.
Il presunto secondo errore di calcolo di Trump, dicono i critici del presidente, riguarderebbe invece i rapporti di potere all’interno del regime iraniano. In sintesi: ritirarsi dall’accordo sul nucleare avrebbe rafforzato la diffidenza verso gli Stati Uniti degli iraniani, anche dei più moderati, e avrebbe dato argomenti ai settori più ultraconservatori per sostenere che il governo americano non è un interlocutore affidabile e credibile (in generale ritirarsi da un accordo internazionale senza che ci sia alcuna violazione delle altri parti non è un buon biglietto da visita per la credibilità di uno stato). In ulteriore sintesi: la decisione di Trump di ritirarsi dall’accordo avrebbe indebolito il governo di Rouhani, moderato, e avrebbe rafforzato gli ultraconservatori più intransigenti e radicali, che di negoziare un nuovo accordo non ne vogliono proprio sapere. Gli ultraconservatori sono gli stessi responsabili delle recenti azioni più aggressive dell’Iran, come gli attacchi alle petroliere e l’arresto della ricercatrice franco-iraniana Fariba Adelkhah.
La situazione attuale è quindi il risultato di mesi di politiche aggressive sia degli Stati Uniti che dell’Iran, decise da leadership più conservatrici di quelle che avevano negoziato l’accordo sul nucleare del 2015. Per Trump il ritiro dall’accordo è stata una scommessa molto rischiosa, sostenuta dagli ambienti più guerrafondai della sua amministrazione e probabilmente fatta senza valutare tutti i rischi del caso. Finora non ha ottenuto i risultati sperati, anzi, ha irrigidito ulteriormente le posizioni della leadership iraniana, da decenni divisa tra un’anima più moderata e una più radicale. In generale non è chiaro come si potrà uscire da questa situazione, e la speranza di molti è che Iran e Stati Uniti siano in grado di gestire la tensione, per evitare di arrivare a uno scontro armato.
***
Giampiero Gramaglia, il Fatto Quotidiano 21/7
Nell’escalation delle provocazioni nel Golfo, gli obiettivi dell’Iran sembrano facili da individuare: non certo fare la guerra agli Stati Uniti, e neppure farsi l’atomica, ché Teheran ci aveva già rinunciato nel 2015; ma convincere Washington a revocare le sanzioni e fare così ripartire un’economia che soffre delle restrizioni impostegli (non può fare valuta vendendo energia e non può acquistare tecnologia o rinnovare le proprie strumentazioni).
Sul fronte interno, i riformisti al potere a Teheran, delusi dagli europei, che danno loro appoggio solo a parole, devono contrastare il ritorno di fiamma dei conservatori, per i quali fidarsi degli Occidentali e fare l’accordo sul nucleare è stato sbagliato e che provano ad alzare il livello dello scontro con gli Usa.
Gli obiettivi degli Stati Uniti sono, invece, più difficili da individuare: l’Amministrazione Trump ha in mente da ultimo un ‘cambio di regime’ a Teheran, che è sempre stato nei progetti dei neo-con, oppure vuole solo favorire l’egemonia regionale dell’Arabia saudita e rispondere alle preoccupazioni di sicurezza di Israele? Il primo fine non è mai stato dichiarato, anzi viene negato, ma è l’unico che giustifichi i rischi di conflitto innescati dall’attuale contesto e più volte sfiorati negli ultimi due mesi. A mettere le carte dell’Iran in tavola è stato, nei giorni scorsi, il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, uno degli artefici dell’intesa sul nucleare. Alle Nazioni Unite, a New York, Zarif, che ha incontrato il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres e ha rilasciato diverse interviste, ha spiegato che l’Iran è pronta a negoziare una versione più stringente dell’accordo nucleare, comprese maggiori ispezioni internazionali ai suoi siti, in cambio della revoca permanente delle sanzioni Usa.
Zarif ha anche assicurato che l’Iran non inizierà mai una guerra contro l’America, “anche se loro ce ne stanno già facendo una economica”.
Il ministro non ha tuttavia escluso l’ipotesi di un conflitto come conseguenza della strategia della “massima pressione” dell’Amministrazione Trump, che diventa “terrorismo economico”. E parlando ieri a Caracas, il ministro degli Esteri iraniano, che adegua il linguaggio ai palcoscenici, ha detto “la presenza Usa nel Golfo, in Medio Oriente e in Sud America mette a rischio la sicurezza … non esiste un posto al mondo dove gli Usa portino stabilità”. Washington non ha mostrato interesse per l’apertura iraniana: Trump e il suo team, dove ci sono falchi anti-iraniani come il consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton, pretendono maggiori concessioni sul fronte nucleare, ma anche lo stop al sostegno di Teheran ai suoi alleati nella Regione, dal regime siriano ai ribelli Huthi nello Yemen.
Anzi, le provocazioni nel Golfo si sono intensificate, durante la missione di Zarif: un drone iraniano abbattuto – e fa 1 a 1, dopo l’abbattimento di un drone americano – e una petroliera britannica sequestrata nello Stretto di Hormuz; pure qui fa 1 a 1, dopo il sequestro di una petroliera iraniana da parte britannica al largo di Gibilterra. Infatti, l’Iran evoca il ricorso al “principio di reciprocità”. Ieri, Teheran ha aperto un’inchiesta sulla Stena Impero, accusata di aver urtato una barca da pesca e ancorata al largo del porto di Bandar Abbas con tutto l’equipaggio (23 uomini). La vicenda innesca il “disappunto” di Londra, espresso a Zarif dal ministro degli Esteri, Jeremy Hunt. Il Regno Unito invita le navi britanniche a rimanere “per ora” fuori dallo Stretto, snodo cruciale dei commerci energetici e punto nevralgico della libertà di navigazione. L’Arabia Saudita ha accettato di ospitare truppe Usa: non accadeva dal 2003, dopo l’invasione dell’Iraq.
Su un altro fronte, ieri Londra ha deciso di fermare i voli civili verso l’Egitto per una settimana, avendo ricevuto un allerta-terrorismo.
***
Anna Guaita, Il Messaggero 21/7
Cinquecento uomini non sono molti, ma sono un segnale che conferma l’escalation militare Usa nel Golfo Persiano. Per la prima volta dal 2003, i Marines tornano in Arabia Saudita, per cooperare nel tenere un occhio sull’operato dell’Iran. Altri 500 dovrebbero essere dislocati entro poche settimane.
Dal maggio dell’anno scorso, quando ha deciso di abbandonare l’accordo del 2015 firmato con Teheran dalla comunità internazionale, Donald Trump ha chiesto e ottenuto dal generale Kenneth McKenzie, comandante dell’U.S. Central Command, un continuo rafforzamento della presenza militare Usa nella zona. Siamo arrivati a 35 mila uomini, fra le basi in Qatar, Kuwait e Bahrein.
Nel Bahrein ha sede la Quinta Flotta, arricchita negli ultimi mesi dall’arrivo del gruppo navale guidato dalla portaerei Abraham Lincoln, da quattro batterie di missili da difesa antiaerea Patriot e da uno squadrone di bombardieri. Da pochi giorni è stato dislocato nella zona anche il gruppo di assalto anfibio guidato dalla Uss Boxer. Un arrivo che ha stupito gli esperti di strategia militare: la presenza di una squadra navale in grado di effettuare uno sbarco con duemila marines, elicotteri da combattimento e carri armati, è stata giudicata da molti come una provocazione nei confronti della Repubblica Islamica di Teheran.
Negli ultimi mesi, per di più, si sono già registrati vari incidenti, di cui il Pentagono ha dato la colpa a Teheran. Petroliere danneggiate da esplosioni, droni abbattuti, navi prese in ostaggio. Che la situazione sia esplosiva lo prova che Trump stesso ha riconosciuto di aver ordinato e fermato all’ultimo minuto un attacco missilistico contro l’Iran, dopo l’abbattimento di un drone americano. Il ministro degli Esteri iraniano, in visita all’Onu tre giorni fa ha espresso il suo timore: «Tante navi straniere in uno spazio d’acqua così piccolo! Gli incidenti possono avvenire» ha ammonito.
Di certo Zarif ricordava come nel 1988 gli americani per errore abbatterono un air bus che trasportava 290 pellegrini iraniani alla Mecca. Scambiato per un aereo da combattimento f-14, l’airbus venne fatto esplodere in volo dalla Vincennes, un incrociatore lanciamissili di servizio nel Golfo. Si era allora nel mezzo della guerra fra Iraq e Iran, e gli americani erano nel Golfo per proteggere i canali navigabili e assicurare il libero commercio del petrolio. Zarif difende il proprio Paese, «che sostiene ha sempre mantenuto la pace nel Golfo» e accusa gli Stati Uniti di fomentare la «instabilità» con la vendita di armi all’Arabia Saudita. Gli americani ammettono oggi che è «assolutamente accurato» temere conseguenze pericolose, come una guerra. Lo ha riconosciuto l’ammiraglio Jason Burns, alla guida del gruppo navale della Boxer.
Ma Burns assicura che l’addestramento a cui i militari sono sottoposti intende «mitigare il rischio al meglio delle nostre possibilità, ed evitare ogni rischio di errore».
***
Paolo Mastrolilli, la Stampa 21/7
Il sequestro della petroliera Stena Impero potrebbe avere «serie conseguenze», e se non verrà rilasciata in fretta la reazione di Londra sarà «ponderata ma dura». Il ministro degli Esteri britannico Jeremy Hunt ha lanciato questo avvertimento all’Iran, ribadendo che l’obiettivo è trovare una soluzione diplomatica e non militare. Le tre incognite che pesano sulla vicenda però sono quanto Teheran vorrà spingersi sulla linea della provocazione; come reagirà Trump, fomentato dal consigliere per la sicurezza nazionale Bolton che avrebbe orchestrato l’incidente; e come potrebbe cambiare la linea del Regno Unito, quando la settimana prossima Boris Johnson probabilmente diventerà premier.
Hunt ha ribadito che la Stena Impero si trovava nelle acque dell’Oman, e il suo sequestro era non solo ingiustificato, ma come ha detto la responsabile della Difesa Mordaunt «un atto ostile». Ieri il comitato Cobra di Londra è tornato a riunirsi per la risposta, anche se finora ha prevalso la linea diplomatica.
Dall’Iran sono arrivate indicazioni contraddittorie. Il portavoce del Consiglio dei Guardiani, Abbas Ali Kadkhodaei, ha detto che «la regola dell’azione reciproca è riconosciuta dalla legge internazionale», confermando così che la cattura della Stena Impero è una rappresaglia per quella della Grace 1, la petroliera iraniana sequestrata dai Royal Marines al largo di Gibilterra. Altre fonti governative però hanno insistito sulla versione secondo cui la nave aveva violato le norme della navigazione e aveva provocato un incidente con un peschereccio.
Trump ha detto che Teheran si è cacciata in un «serio guaio», mentre il Central Command ha rilanciato la «Operation Sentinel», coalizione di unità alleate che dovrebbe pattugliare lo stretto di Hormuz per garantire la sicurezza delle navi. Il Guardian e il Pais hanno scritto che l’intero incidente è stato orchestrato da Bolton, per far precipitare la situazione. Gli americani seguivano la Grace 1 via satellite da aprile e 48 ore prima del suo arrivo nello stretto di Gibilterra avevano informato la Spagna, accusandola di trasportare petrolio verso la raffineria siriana di Banias, in violazione delle sanzioni europee contro il regime di Assad. Madrid l’aveva seguita, ma poi gli Usa avevano chiesto a Londra di bloccarla. Cosa che i britannici hanno fatto. Bolton ha subito celebrato via Twitter, perché così si sono esposti alla rappresaglia, che ora ha trascinato il Regno Unito nella crisi.
Finora Londra ha sostenuto la linea europea, che puntava a tenere in piedi l’accordo Jcpoa, ma il sequestro della Stena Impero potrebbe spingere Johnson sulla sponda di Trump. Il capo della Casa Bianca finora ha detto che il suo obiettivo è rinegoziare l’intesa siglata da Obama, e anche l’ex presidente Ahmadinejad ha detto al New York Times che Teheran dovrebbe sedersi al tavolo per fare qualche concessione e chiudere la crisi. Questa però non sembra essere l’agenda di Bolton, e neppure dell’Iran, aprendo la porta al rischio di una escalation militare.
***
Giuseppe Sarcina, Corriere della Sera 20/7
Gli Stati Uniti sono pronti «a coordinarsi» con la Gran Bretagna per affrontare l’escalation, sempre più pericolosa, nello Stretto di Hormuz.
Donald Trump tuttavia per ora si mantiene prudente: «Parlerò con Londra e vediamo. Noi lì abbiamo molte navi, navi da guerra, ma non molte petroliere». Il presidente ha aggiunto che il sequestro delle petroliere britanniche è la conferma di quanto Teheran sia fonte di problemi. È evidente, però, che l’amministrazione di Washington non ha ancora raccolto elementi sufficienti: forse Trump sta aspettando anche rapporti del Pentagono e dell’Intelligence.
Intanto Garret Marquis, portavoce del Consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton, scrive in una nota: «È la seconda volta in poco più di una settimana che il Regno Unito è l’obiettivo della dilagante violenza del regime iraniano. Gli Stati Uniti continueranno a lavorare con i loro alleati e partner per difendere la loro sicurezza e i loro interessi dai comportamenti nefasti dell’Iran».
In realtà, da diversi mesi gli americani stanno cercando di capire se esiste la possibilità di un negoziato reale con il Paese degli ayatollah. Nei giorni scorsi, prima Trump e poi il Segretario di Stato, Mike Pompeo, hanno ripetuto la disponibilità a «trattare senza condizioni» con l’Iran. «Non vogliamo che abbiano l’atomica, per il resto possiamo cercare di fare il possibile per aiutarli», ha detto il presidente in una riunione con i suoi ministri.
Ieri Trump ha dichiarato che potrebbe coinvolgere nei negoziati anche il senatore repubblicano Rand Paul. Paul, battitore libero nel Congresso, avrebbe aperto un canale di dialogo con il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif.
Il percorso, però, procede a strappi. La trama diplomatica viene regolarmente stravolta da qualche avvenimento sul campo. Solo due giorni fa lo stesso Trump aveva annunciato che la nave da guerra Uss Boxer aveva abbattuto un drone iraniano. «Si era avvicinato troppo e lo abbiamo distrutto», ha detto. Il ministro Zarif ha risposto con sarcasmo: «Il presidente degli Stati Uniti ha le allucinazioni». E più tardi il generale Abolfazl Shekarchi ha precisato: «Tutti i nostri droni sono tornati alla base; diffonderemo foto che lo dimostrano. Non abbiamo subito perdite». Il Pentagono, però, ha confermato la versione di Trump, assicurando di avere le prove del sorvolo e dell’abbattimento del drone. Ora il sequestro delle petroliere rischia di azzerare i margini di trattativa.
***
Davide Frattini, Corriere della Sera 20/7
Alla fine di giugno l’aviazione israeliana ha organizzato un’esercitazione a sorpresa e i piloti sono decollati per mettersi alla prova con uno scenario che l’intelligence militare ritiene possibile: attacchi su fronti multipli, manovre per evitare le risposte anti-aree di sistemi avanzati. Il nome implicito dell’operazione è Iran. In questi mesi il primo ministro Benjamin Netanyahu sembra aver moderato – almeno in pubblico – la sua retorica contro gli ayatollah iraniani: da protagonista e volto delle strategie per contenere quello che considera l’offensiva della Repubblica islamica, è diventato quasi un osservatore delle tensioni attorno allo Stretto di Hormuz. I suoi consiglieri e lo Stato Maggiore temono però che la crisi – assieme al rialzo dei prezzi del petrolio – si stia sviluppando troppo lentamente, almeno secondo l’orologio dei Pasdaran iraniani. Che hanno bisogno di riportare gli Stati Uniti al tavolo dei negoziati. In fretta. Il nord di Israele – il confine con il Libano e la Siria – potrebbe diventare così il nuovo fronte di una partita che per ora non riguarderebbe lo Stato ebraico: un attacco perpetrato dalle milizie sciite accampate nel caos siriano o una riedizione 13 anni dopo del conflitto estivo con Hezbollah, il gruppo libanese che risponde agli ordini di Teheran. La minaccia è considerata concreta al punto da spingere a intervenire il presidente Reuven Rivlin, sempre alla fine di giugno: «Mandiamo un avvertimento a Hezbollah perché non si sottometta alle richieste dell’Iran. Non vogliamo la guerra, siamo pronti a qualsiasi scenario». Gli analisti ricordano altre estati, tra il 2009 e il 2013, quando i mesi più caldi erano considerati i migliori – cieli tersi, ottima visibilità – per un raid contro i laboratori nucleari iraniani, missione che il governo Netanyahu ha discusso e rinviato senza mai cancellarla dai piani.
***
Guido Olimpio, Corriere della Sera 20/7
Si fermeranno o continueranno? Nel Golfo Persico è in corso una sorta di «Iraneide», con prove di forza, provocazioni e guerra psicologica. Una partita ad alto rischio.
Lo avevano promesso e l’hanno fatto. I pasdaran hanno intercettato due petroliere nella zona di Hormuz. Prima hanno fermato la britannica Staina Impero: è stata affiancata da motovedette e seguita da un elicottero, quindi costretta a proseguire verso l’isola di Qemsh. Poco dopo ambienti marittimi hanno segnalato il repentino cambio di rotta di una seconda nave, la Mesdar, e fonti citate dalla Cnn hanno confermato che l’unità era finita nelle mani dei guardiani. Ma successivamente avrebbe ripreso il viaggio verso l’Arabia Saudita. Una situazione confusa.
L’abbordaggio è la probabile rappresaglia per un’analoga mossa inglese, non meno spettacolare: il fermo — il 4 luglio — della Grace 1 con greggio iraniano a Gibilterra, un carico proibito perché destinato alla Siria. Proprio ieri le autorità hanno allungato lo stop di almeno un mese.
Il governo britannico, riunitosi d’urgenza, ha denunciato il gesto inaccettabile. Da giorni Londra aveva messo in guardia sui pericoli ed aveva deciso di schierare una terza unità per proteggere il proprio naviglio nel Golfo. Donald Trump, che ieri aveva già parlato con il francese Macron sul tema del nucleare iraniano, ha previsto consultazioni rapide.
Il presidente ha rinforzato il dispositivo militare nella regione e ha invitato gli avversari a «non fare gli stupidi» perché rischiano di pagare un caro prezzo per quella che un portavoce ha definito «una grave escalation».
Moniti resi più attuali dal susseguirsi di eventi. Poche ore prima sempre i pasdaran hanno confermato la cattura di una petroliera degli Emirati, la Riah 1, accusata di essere coinvolta in attività di contrabbando. Quindi un episodio con due versioni. Il Boxer, unità d’assalto anfibio americana, ha abbattuto un piccolo drone iraniano avvicinatosi a circa un chilometro. Lo hanno tirato giù senza sparare un proiettile, usando un sistema elettronico. Teheran, però, ha negato affermando che i marines hanno distrutto per errore un loro mezzo.
Non è un mistero che gli Stati Uniti vogliono creare una coalizione internazionale che protegga il traffico marittimo a Hormuz e in Mar Rosso in chiave anti-Iran. Ieri un loro aereo ha fatto da scorta a un mercantile proprio per ribadire questa volontà. È chiaro che gli scontri sembrano dare loro ragione.
Al tempo stesso, alcuni osservatori sostengono che le mosse di Teheran puntano in realtà a ottenere un esito diverso: una pressione diplomatica dei partner occidentali sulla Casa Bianca per arrivare alla ripresa di un negoziato. Oltre alla questione delle rotte sicure c’è in ballo il contrasto sull’atomica iraniana. È un gioco calcolato, è facile compiere errori.
***
Vincenzo Nigro, la Repubblica 20/7
Lo Stretto di Hormuz è una frontiera di guerra, oggi di sicuro è il confine più caldo del mondo. Non soltanto perché oltre ad essere una linea di divisione "politica" è anche una arteria, un oleodotto marino attraverso cui passa il 90 per cento del petrolio prodotto nel Golfo. Ovvero il 20 per cento della produzione che quotidianamente viene messa in movimento per il pianeta.
Ma anche perché lo Stretto è il punto di contatto/non contatto più vicino fra gli attori del Golfo Persico. Da sempre questo vasto mare "interno" è l’area del mondo su cui si affacciano due civiltà in perenne conflitto, quella persiana e quella dei Paesi arabi della sponda occidentale. Due mondi al fianco dei quali si sono schierati alleati potenti, a partire da Usa e Israele contro Russia e Cina.
A Nord il territorio iraniano fronteggia la punta omanita del Musandam, una piccola regione controllata dall’Oman, che gli ex colonialisti britannici ritagliarono nella penisola arabica lasciandola al controllo del sultanato, spingendo più a Sud i territori degli Emirati Arabi Uniti. Dalle coste dell’Oman il profilo delle montagne iraniane è chiaro: nell’umidità, nel caldo, nel vento infuocato che ustiona i marinai, gli equipaggi delle petroliere che attraversano lo Stretto di rado escono all’aperto abbandonando la protezione della loro aria condizionata. Ma se si affacciano sulle alette di plancia, lungo i 120 chilometri dello stretto, riescono praticamente sempre a vedere le coste dei due mondi sfilare a destra e sinistra. La costa persiana da un lato, quella araba all’altro.
Nicola Pedde, lo studioso italiano di questioni iraniane, ha svolto la sua tesi di laurea sullo Stretto di Hormuz: «Hormuz ha un’importanza strategica per tutti, ma per qualcuno è ancora più strategico. E sono gli iraniani. L’Arabia Saudita per esempio da anni ha iniziato a costruire oleodotti che attraversano il deserto e arrivano al Mar Rosso, permettono di scaricare il petrolio aggirando Hormuz ». Per l’Iran non è così facile: praticamente tutto il suo petrolio esce da Hormuz, e per loro quindi la partita è davvero vitale. Anche gli iraniani hanno costruito un porto fuori da Hormuz, Chabahar, ma trasferire il petrolio dai pozzi all’interno del Golfo fino a Chabahar è un’operazione complessa, che comunque l’Iran non riesce a compiere.
Tutti sanno che per gli Stati Uniti, diventati esportatori di petrolio e soprattutto di shale-gas, il Medio Oriente non è più strategico come una volta da un punto di vista energetico. Ma il Golfo Persico e l’Iran rimangono una sfida politica centrale per qualsiasi amministrazione americana. Soprattutto perché questa contesa, questa possibile nuova guerra del Golfo, non si combatte (solo) per il petrolio. Ma per il dominio politico nell’area, perché gli americani vogliono rimanere in prima linea a difendere i loro interessi e i loro alleati (a partire da Israele e Arabia Saudita) e per far questo devono fermare l’Iran.
A partire dagli Anni Ottanta gli americani hanno agito più volte lungo lo stretto di Hormuz. Nel 1984/1988 ci fu una prima "guerra delle petroliere", con una flotta multinazionale a cui contribuii anche l’Italia. La Marina schierò un gruppo navale guidato dall’ammiraglio Angelo Mariani. Una "protezione della libertà del traffico marittimo" che in sostanza era già allora un contenimento dell’Iran nella guerra del tempo con l’Iraq, allora alleato di fatto dell’Occidente.
Oggi l’Iran, colpito da sanzioni americane durissime che stanno strangolando la sua economia, combatte nel Golfo e quindi lungo Hormuz una partita vitale. Deve di continuo alzare la posta, rilanciare con i piccoli attacchi, gli abbattimenti di droni americani, deve rischiare il più possibile. Deve correre il rischio di una guerra generalizzata (che Teheran non vuole) perché lontano da Hormuz, nelle città di quello che fu l’impero persiano, l’economia è in ginocchio. Gli Stati Uniti vogliono continuare con questa pressione, per portare l’Iran ad abbassare la testa. Ecco perché quindi la dimensione militare di questa partita si giocherà soprattutto in un punto. Il nome del gioco è "Hormuz".
***
Michele Pignatelli, Il Sole 24 Ore 21/7
Resta alta la tensione nello Stretto di Hormuz all’indomani del sequestro della petroliera battente bandiera britannica Stena Impero da parte delle Guardie della rivoluzione iraniane. Anche se dietro toni duri e minacce si intravvede ancora il tentativo di risolvere la crisi per vie diplomatiche. L’episodio però - ultimo di una serie di incidenti o attacchi deliberati contro navi o droni nel Golfo Persico negli ultimi due mesi - rischia di far salire ulteriormente i costi assicurativi per le compagnie di navigazione, se non di ridurre drasticamente il traffico di petroliere in una delle vie d’acqua più strategiche a livello globale: dallo Stretto di Hormuz, tra Golfo Persico e Golfo di Oman, sono transitati in media nel 2018 21 milioni di barili di greggio al giorno secondo il Dipartimento dell’energia americano, il 21% del consumo globale di petrolio e un terzo di quello commerciato via mare.
La pressione di Londra
Il ministro degli Esteri britannico Jeremy Hunt, in una telefonata con l’omologo iraniano Javad Zarif, ha espresso «estremo disappunto» per quello che il governo di Londra ha definito un «atto ostile», minacciando Teheran di «serie conseguenze». Lo stesso Hunt, in un tweet, ha evocato risposte «ponderate ma forti» se il cargo e i 23 membri dell’equipaggio (di nazionalità indiana, filippina, russa e lettone) non saranno rilasciati. In un’intervista dopo una riunione di governo ha però sottolineato che Londra «non considera opzioni militari ma cerca una via diplomatica per risolvere la crisi». In questa direzione va la convocazione dell’incaricato d’affari iraniano, Mohsen Omodzamani, nella capitale britannica. Il governo britannico intanto mette in guardia le sue navi dall’avvicinarsi allo Stretto.
L’Iran da parte sua - dopo aver riferito di aver sequestrato e portato la Stena Impero nel porto di Bandar Abbas perché si era scontrata con un peschereccio, violando le regole della navigazione - ha fornito indirettamente la chiave di lettura più plausibile dell’azione: una risposta al sequestro al largo di Gibilterra della petroliera iraniana Grace 1, avvenuto il 4 luglio ad opera della British Royal Navy. Il fermo della nave, sospettata di trasportare petrolio in Siria in violazione dell’embargo, proprio ieri è stato prolungato di un mese. «Il diritto alla ritorsione - ha dichiarato il portavoce dei pasdaran - è riconosciuto dalla legge internazionale e si attua in risposta a misure sbagliate adottate da un governo». A rafforzare l’idea della rappresaglia la diffusione di un video, da parte degli stessi pasdaran, in cui militari armati e in passamontagna si calano sul ponte della nave da un elicottero: la stessa tattica dei marines britannici a Gibilterra.
La risposta di Trump
Intanto, mentre Francia Germania (i due Paesi che, proprio con il Regno Unito, finora hanno fatto di più per tenere in vita l’accordo sul nucleare iraniano) hanno chiesto il rilascio immediato del cargo, il presidente americano Donald Trump ha sottolineato che i fatti dimostrano le sue tesi sull’Iran: «Guai, nient’altro che guai». In concreto, gli Usa hanno fatto sapere di voler inviare 500 soldati in Arabia Saudita per rafforzare la presenza in Medio Oriente, ma - soprattutto - hanno annunciato il via all’”Operazione sentinella”, una coalizione marittima a guida americana per «accrescere la sicurezza» nel Golfo.
Costi assicurativi decuplicati
Proprio i rischi per la sicurezza evidenziati dagli incidenti degli ultimi due mesi hanno fatto schizzare i costi assicurativi per i cargo che, oltre a una polizza annua per copertura dal rischio guerra, comprendono premi aggiuntivi legati all’ingresso in aree pericolose, calcolati su base settimanale. «In seguito agli attacchi - ha dichiarato di recente a Cnbc Anthony Gurrnee, ceo della Ardmore Shipping - i costi assicurativi extra per attraversare lo Stretto di Hormuz sono aumentati di dieci volte negli ultimi due mesi». Gli ultimi sviluppi non fanno che peggiorare il quadro.
***
Roberto Fabbri, il Giornale 21/7
P etroliere sequestrate, droni abbattuti, truppe dispiegate e appelli alla ragionevolezza e alla diplomazia che sembrano lanciati proprio nel timore che cominci a esser tardi per farvi davvero affidamento. La partita in gioco nel Golfo Persico rischia in effetti di sfuggire di mano almeno a qualcuno dei suoi protagonisti, e con quali temibili conseguenze visto che stiamo parlando dello strategico cuore dei rifornimenti di petrolio vitali per i Paesi occidentali e non solo è appena il caso di ricordare.
La domanda che legittimamente ognuno si pone è: ma davvero siamo arrivati a un passo dal punto di non ritorno, davvero rischia di scoppiare una Terza Guerra del Golfo con l’Iran al centro dei mirini americani? La domanda è semplice, ma la risposta è complessa. Complessa come l’intrico di interessi che si annodano in quel punto del mondo così speciale da renderlo unico. Qui si incrociano le prioritarie necessità di approvvigionamento energetico dell’Occidente con la presenza di una potenza regionale, l’Iran, il cui governo fanatico chiama un popolo disilluso a compattarsi di fronte a due nemici: il Satana americano con i suoi alleati europei, e l’Arabia Saudita «traditrice del vero islam sciita» e legata a doppio filo con l’odiata America. A complicare il quadro c’è l’ambizione pericolosissima del regime islamico di Teheran di dotarsi di un arsenale atomico da utilizzare nessun dubbio al riguardo contro l’altro grande nemico degli ayatollah: Israele. Il patto voluto da Barack Obama per mettere sotto controllo quel programma è stato stracciato da Donald Trump, che invano si sforza di portare dalla sua parte gli alleati europei (che tanto è abituato a bistrattare) perché essi pure lo denuncino. Il braccio di ferro con Londra obbliga in queste ore Francia e Germania a prendere le distanze da Teheran, ma a Downing Street nessuno si illude: la solidarietà europea raramente va oltre le parole.
Si cerca una via diplomatica per uscire dalla strozzatura, più stretta dello stretto di Hormuz al centro della contesa, provocata dagli attacchi iraniani alle petroliere britanniche. Lo stesso Trump, che ha scarsa visione geopolitica ma consiglieri abbastanza assennati, non vuole incendiare il Golfo, ma il gioco di ricatti sfacciati messo in piedi dagli iraniani potrebbe metterlo con le spalle al muro, e l’uomo non è troppo disponibile ad accumulare figuracce a poco più di un anno dalle prossime presidenziali americane. La cosa più brutta è che il gioco sembra condotto dai pasdaran, le guardie della rivoluzione iraniana. I quali avranno anche fatto i loro cinici conti, ma a forza di tirare la corda accade a volte che si strappi.