Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  luglio 21 Domenica calendario

La generazione della pensione perduta

Vincoli posti dalla riforma Fornero. Carriera discontinua e basso reddito. Inesistenza di un’integrazione al minimo. La speranza di vita che si allunga. Ecco perché i giovani o giovani-adulti di oggi, quarantenni e forse qualche cinquantenne inclusi, devono preoccuparsi. La loro pensione sarà piccola e la prenderanno da ultra settantenni.
Ormai non si parla più di una “pensione di garanzia” per queste generazioni. Forse perché l’emergenza tocca epoche future, fuori da perimetri elettorali della classe politica attuale concentrata sulla flessibilità da garantire ai sessantenni di oggi (che votano più dei giovani) con quota 100 e chissà forse anche tramite quota 41. Ma una buona parte della generazione X degli anni ‘70, i Millennials – nati negli anni ‘80 e ‘90 – e certo anche la generazione Z degli anni Duemila, ovvero tutti coloro che hanno cominciato a lavorare dopo il 1996 e ricadono in pieno nel sistema contributivo (prendi in base ai contributi versati e non in percentuale dell’ultimo stipendio, come col metodo retributivo) rischiano di incassare la pensione da over 70: a seconda delle simulazioni a 73 anni o anche dopo i 75. E soprattutto con assegni da fame, fino al 25% in meno in media. Altro che 62 anni e 38 di contributi, come garantisce oggi quota 100.
I motivi sono quattro. E vanno affrontati ora, per invertire la tendenza. Primo motivo, i requisiti Monti- Fornero del 2011 che legano l’età del pensionamento al valore della pensione. Un vincolo fin qui inedito e stringente perché nessuno ancora ha preso una pensione tutta contributiva, tutt’al più mista con un pezzetto di retributivo. Chi ha cominciato a versare contributi dal 1996 in poi potrà andare in pensione solo se il suo assegno gli consente una vita dignitosa, così fu giustificato il paletto nel 2011: e quindi solo se è 2,8 volte l’assegno sociale (pensione anticipata) oppure 1,5 volte (pensione di vecchiaia). Questo significa che le prime corti contributive che usciranno dal 2035 – come ha calcolato la Cgil in uno studio presentato venerdì – potranno lasciare il lavoro a 66 anni, con almeno 20 di contributi, solo con una pensione da almeno 1.282 euro (2,8 volte l’assegno sociale). Oppure a 69 anni, con almeno 20 di anzianità, solo con una pensione non inferiore a 687 euro (1,5 volte). Se il requisito economico non c’è, si esce a 73 anni ed almeno 5 anni di contributi versati. La possibilità di agganciare la pensione anticipata è considerata lunare: chi avrà 44 o 45 anni di contribuzione? Non queste generazioni.
Il secondo motivo di preoccupazione è l’eliminazione della pensione integrata al minimo per chi è totalmente nel sistema contributivo. Oggi se non arrivi a 513 euro, il resto lo mette lo Stato. Per i post-1996 no. Dovranno accontentarsi anche di 200-300-400 euro.
Terzo motivo dello slittamento in là delle pensioni e del loro assottigliamento è la carriera di chi oggi lavora in modo intermittente e precario. Di chi cioè colleziona contrattini, voucher, nero, cococo. E soprattutto tanti buchi tra un lavoretto e l’altro. Quarto motivo: l’aspet tativa di vita. Viviamo di più, lavoriamo di più. L’età della pensione tenderà a spostarsi sempre più in là nel tempo.
Gli effetti sono paradossali, la Cgil li mette in fila. Una colf con 40 anni di contributi e uno stipendio part-time da 600 euro lordi al mese a 64 anni non potrà uscire, dovrà lavorarne altri 4 per raggiungere il criterio economico Monti-Fornero. E prenderà 360 euro di pensione. Un suo coetaneo, dirigente di banca, 4 mila euro lordi di stipendio, con soli 20 anni di contributi la metà – andrà invece in pensione a 64 anni con 1.330 euro al mese. Se un uomo di 35 anni – che lavora da 5 con stipendio da 1.076 euro – si fa male e diventa inabile, avrà la maggiorazione contributiva prevista anche oggi per le pensioni di inabilità. Ma il suo assegno sarà di 525 euro anziché 782 euro perché la riforma Dini del 1995 decise di applicare un coefficiente che trasforma lo stipendio in pensione oggi troppo basso, inattuale: quello dei 57 anni. Altra stortura da correggere. Ma chi se ne occupa?