Corriere della Sera, 21 luglio 2019
Intervista a Rocco Commisso
Quarant’anni prima di diventare un magnate della tv via cavo negli Stati Uniti, e quasi sessanta prima di tornare in Italia per comprare la Fiorentina, Rocco Commisso è stato un ragazzo di Calabria costretto a emigrare. Il racconto della sua storia, che lui stesso affida a questa intervista al Corriere della Sera, inizia dal giorno in cui la mamma gli disse che avrebbero lasciato l’Italia per raggiungere il papà negli Stati Uniti.
Marina di Gioiosa Ionica, provincia di Reggio, inizio degli anni Sessanta. Il rumore della Seicento che scandisce il ritmo dell’Italia del boom economico, da casa sua, non si sente neanche da lontano. «A scuola sono sempre stato bravissimo. Ma per una serie di intoppi ero stato costretto a ripetere la quinta elementare pur essendo stato promosso. Anche per questo non volevo andarci, in America, a raggiungere mio papà. “Non parlo la lingua, sono pure indietro con la scuola, laggiù penseranno che sono uno stupido”, mi ripetevo».
Dalla Calabria alla Pennsylvania solo andata.
«Mio papà mi manda a scuola il primo giorno. Primo aprile 1962, non capisco neanche mezza parola di inglese. Quelli come me, negli Usa, di solito li iscrivevano una classe indietro. Per me era ancora più complicato, visto che già un anno l’avevo perso in Italia. Poi mio papà fa il miracolo che cambia la mia vita».
Quale?
«Si era trasferito in America prima di noi, nel ’56. Era stato prigioniero di guerra in Africa e, come molti di quelli che avevano combattuto, era tornato in un’Italia senza lavoro, senza soldi, senza nulla. Dimenticato e da perdente, con una storia e una faccia simili a quelle che avrei rivisto anni dopo, negli Usa, guardando i reduci del Vietnam. Eppure riesce a convincere il preside della scuola di Pittsburgh che il figlio, io, era un ragazzo molto capace. Recupero tre anni scolastici in pochi mesi. A conti fatti, quel discorso col preside mi cambia la vita. Se fossi rimasto indietro con gli studi, sarei stato costretto ad andare a lavorare. Invece, grazie a mio papà, mi metto in marcia».
L’anno dopo vi spostate a New York, giusto?
«Anche qui, un mezzo dramma. Arrivo quando è troppo tardi per partecipare all’esame per iscriversi a una high school privata. Nel Bronx, dove abitavamo, entro in contatto con un talent scout. Inizio a suonare la fisarmonica in un teatro e lui mi propone di segnalarmi a un conservatorio. Io gli chiedo “ma scusa, perché questa lettera non la mandi al preside di una high school?”. E così entro alle superiori, caso più unico che raro, senza sostenere l’esame».
È vera la storia del provino per la nazionale olimpica di calcio degli Usa?
«Questa è del 1970. Pur non avendo giocato nella squadra della scuola superiore, con il calcio ottengo una borsa di studio del 50 per cento della retta alla New York University. Il problema è che non avevo l’altro 50 per cento. Il mio professore di educazione fisica mi segnala alla Columbia che, invece, mi offre una borsa che copre interamente la retta».
E il provino?
«Studiavo e lavoravo, ci eravamo allenati da settembre a novembre e il provino era nella primavera successiva. Ero arrivato spompato e, diciamola tutta, non ero poi così forte a calcio. Giocavo bene per come giocavano gli americani all’epoca, non di più. E poi stavo per cominciare alla Pfizer».
L’industria farmaceutica di Brooklyn.
«Esatto. Ero l’unico manager dell’azienda che entrava al lavoro alle 4 del pomeriggio e usciva a mezzanotte. La mattina facevo il master alla Columbia e poi avevo anche aperto una discoteca. Casa e discoteca nel Bronx, studi a Manhattan, lavoro a Brooklyn, fidanzata a Toronto: tutti i giorni, dalle 7 alle 2 di notte, il mio giro era quello. Dal ’62 al ’73 non ho mai fatto vacanze».
Com’è diventato un magnate della tv via cavo?
«Anni dopo. Alla Chase Manhattan Bank nessuno voleva avere a che fare con questi signori delle tv via cavo. Era gente con metodi spicci, che non metteva la cravatta. Io sì, divento uno specialista del settore “tv via cavo”. Fino a che non mi chiama uno di loro per andare a lavorare con lui. In meno di dieci anni saliamo di fatturato da 50 milioni a 550. Lui voleva fare un miliardo e ritirarsi. Infatti nel ’95 ha venduto alla Time Warner. Io no, credevo nel business e mi sono messo da solo fondando Mediacom con tutto quello che avevo».
Era una partita già vinta.
«Tutt’altro. I primi investimenti li faccio con dei sistemi tv via cavo a Ridgecrest, in California. Venticinque scosse di terremoto in poco tempo. Un niente e avrei perso tutto, tutto quello che avevo costruito. Non ho rischiato, però. Semplicemente, ci credevo».
Perché non ha preso il Milan l’anno scorso?
«Eravamo alle firme finali. La sera prima, mentre aspettavamo i documenti, mister Li, che non ho mai visto di persona e con cui non ho mai parlato, cambia tutto. Cambia le banche, i consulenti, gli avvocati, le clausole. Tutto. Penso, in quei giorni, che ha un’offerta migliore della mia. Però non si rivelerà così, a quello che vediamo è andato a perderci 500 milioni in un anno e mezzo. Ma magari non conosco tutta la storia».
E la Fiorentina?
«C’erano stati dei contatti ancora prima del Milan, nel 2016. L’anno scorso mi chiamano degli emissari dei Della Valle. “Non accettiamo cifre che non abbiano il 3 davanti”, mi dicono. “Trecento milioni?”, chiedo io. Li ho rimandati in Italia».
E poi?
«Mi ricontattano tramite Jp Morgan, la mia banca da sempre. Loro sanno (parla di sé in terza persona, ndr) come Rocco fa gli affari, quanto Rocco sia serio. Il “3 davanti” scompare, chiudiamo in due settimane quasi alla metà».
Cosa promette ai tifosi?
«Io sono innamorato del calcio e dell’Italia, il Paese in cui sono nato. Non mi sono mai piaciuti il basket o il football. Sono qui per imparare e per lavorare. Questa è la promessa che faccio: lavorare tanto, come ho sempre fatto. I soldi che ho messo per prendere la Fiorentina non sono di soci o investitori. Sono soldi di Rocco, sono miei. Per questo, con grande umiltà, chiedo la collaborazione delle istituzioni italiane, della politica, del sindaco Nardella. Anche perché, sinceramente, non posso permettermi di vedere in dieci anni i frutti dei sacrifici e degli investimenti che sto facendo oggi».
Per esempio?
«Per esempio, non posso permettermi di trovarmi nella situazione in cui Pallotta si trova oggi a Roma con la questione dello stadio».
Federico Chiesa rimarrà?
«Io non voglio venderlo, non voglio che sia il mio Baggio, la stella che io arrivo e lui va via da Firenze. L’ho incontrato qua a Chicago e gli ho parlato. Spero di riuscire a convincerlo che, con Rocco, le cose per la Fiorentina andranno molto meglio nei prossimi tempi».