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 2019  luglio 21 Domenica calendario

Imprese e zavorre di un paese

L’Italia non cresce ormai da tempo, ma sarebbe un errore pensare che le caratteristiche di un Paese che non cresce – poche idee, scarsa innovazione, poca concorrenza, posizioni di rendita, emigrazione di molti giovani promettenti – siano diffuse in modo uniforme.
La crescita zero è una media fra un Paese che lentamente declina lottando per dividersi una torta sempre più piccola e un altro che eccelle e compete (vincendo) con il resto del mondo. Infatti, nonostante l’incertezza politica, una burocrazia asfissiante, molti servizi più costosi e meno efficienti che in altri Paesi europei, la criminalità organizzata in alcune regioni, nonostante tutto questo l’Italia è piena di aziende che crescono, esportano, assumono e fanno profitti che poi distribuiscono ai loro azionisti. 
A Oderzo, in provincia di Treviso, la Nice produce sistemi informatici per gestire abitazioni, fabbriche e uffici: dai sistemi di allarme ai cancelli automatici. Lo scorso anno ha fatturato 368 milioni di euro di cui il 91 per cento fuori dall’Italia, guadagnandone 40. Produce in Italia, in California, in Polonia, in Brasile e ha da poco acquistato un’azienda canadese specializzata nell’automazione delle porte dei garage.
A Bolzano la TechnoAlpin ha installato in giro per il mondo più di 100 mila cannoni per «sparare» la neve (7 mila solo l’anno scorso), sistemi che riescono a creare neve artificiale anche a temperature vicine a zero gradi, caratteristica che in tempi di «global warming» è particolarmente utile. La sua quota di mercato (mondiale) di queste macchine supera il 60 per cento: produrrà tutti i cannoni che verranno usati durante le Olimpiadi invernali in Cina nel 2022. Lo scorso anno ha fatturato 250 milioni di euro. Poco meno della Fassi, un’azienda bergamasca che produce gru per ogni esigenza e vende all’estero il 96 per cento di quanto produce. Icf (Industrie chimiche forestali), un’azienda fondata 100 anni fa e leader mondiale nella produzione di adesivi e tessuti ad alto contenuto tecnologico, ha fatturato lo scorso anno 80 milioni di euro, anch’essa il 70% all’estero, con una redditività dell’11%. Produce tutto in Italia, con 125 dipendenti in una fabbrica in provincia di Milano. Dallo scorso anno è quotata all’Aim, il mercato di Borsa italiana dedicato alle piccole imprese in cerca di capitali per finanziare la crescita.
Ogni anno l’inserto L’Economia del Corriere individua 600 aziende italiane che crescono da almeno dieci anni, non hanno debiti e assumono regolarmente. Queste imprese hanno una redditività media del 13 per cento, quelle fino a 120 milioni di fatturato, e dell’8 per cento le più grandi. Esportano in media l’86 per cento di quanto producono. Sono infatti le esportazioni a far crescere la nostra economia. Fra il 2010 e il 2017 l’export ha contribuito per il 6,4 alla crescita del Pil. Senza le esportazioni, in questi sette anni il nostro reddito – anziché rimanere sostanzialmente invariato – sarebbe caduto di oltre 6 punti.
A fronte di queste imprese l’azienda dei trasporti pubblici di Roma (Atac) ha perso, negli ultimi due anni (secondo l’analisi di Andrea Giuricin dell’Istituto Bruno Leoni), oltre 2 milioni di euro al giorno. E l’assenteismo è al 12 per cento, che vuol dire che 1.500 dipendenti su 12.000 ogni mattina non si presentano al lavoro. Di fronte al disastro, la sindaca Virginia Raggi, con l’aiuto del governo, ha scaricato i debiti di Atac sui contribuenti e poi ha aggirato le regole europee sugli appalti di servizi pubblici rinnovando il contratto per altri due anni senza metterlo a gara. Atac è un caso macroscopico, ma non isolato nel mondo delle aziende pubbliche. Nel triennio 2016-18 Alitalia ha accumulato una perdita pari a oltre un miliardo di euro. È facile prevedere che i nuovi soci privati che hanno detto di essere interessati a entrare nel capitale della compagnia aerea lo faranno a condizione che di quel miliardo di debiti si facciano carico gli azionisti pubblici: Stato e Ferrovie. Cioè noi contribuenti.
Non è solo una differenza fra pubblico e privato. Ci sono moltissime imprese private che sopravvivono grazie a sussidi, agevolazioni fiscali, norme che favoriscono questa o quella attività, regole che difendono questa o quel settore. Sussidi e privilegi fiscali sono un problema in molti Paesi, ma l’Italia ne ha una dose particolarmente massiccia. I dati del Ministero dell’Economia (Rapporto sulle spese fiscali 2018) mostrano che in Italia vi sono oltre 500 misure classificabili come sussidi fiscali, spesso piccoli, costruiti per favorire questa o quell’impresa, questo o quel micro settore. 
Che cosa fare è evidente. Per riprendere a crescere occorre spostare risorse dalle imprese improduttive a quelle produttive, il che spesso significa dal pubblico o semi-pubblico al privato. Queste riallocazioni hanno dei costi, che però vale la pena pagare. Si tratta di concedere prepensionamenti o comunque aiuti a chi deve lasciare un lavoro e trovarne un altro. Nessun privato accetterebbe di gestire i trasporti pubblici di Roma se dovesse accollarsi tutti i 12.000 dipendenti dell’Atac; lo stesso vale per Alitalia. Ma la riallocazione va favorita difendendo i lavoratori, non mantenendo in vita posti di lavoro inefficienti. In sintesi: concorrenza e taglio a sussidi e agevolazioni per eliminare imprese inefficienti; stato sociale (riformato) per proteggere chi è colpito dalla riallocazione, senza scoraggiare il lavoro e senza tassare l’imprenditorialità.
Ma non è facile. L’Italia che vive di piccole o grandi posizioni di rendita è quotidianamente tesa a difenderle. Questi imprenditori si impegnano in politica perché è attraverso la politica che si difendono le rendite. Invece imprenditori come Roberto Griffa, il ceo di Nice, Giovanni Fassi o Walter Rieder, Erich Gummerer e Georg Eisath di TechnoAlpin, Guido Cami di Icf sono italiani, producono in Italia e hanno però la testa all’estero. Se li incontri ti raccontano di clienti lontani: a Hong Kong, San Paolo, Montreal. Non hanno tempo per occuparsi della politica italiana. Sperano solo di essere lasciati tranquilli a lavorare, con i loro dipendenti con i quali hanno rapporti costruttivi e sereni. Lavorano nell’ipotesi e con la speranza che l’Italia resti ancorata saldamente all’Europa, che il commercio internazionale, nonostante Trump, rimanga aperto. Gradirebbero una pressione fiscale meno elevata, non ci sperano molto. Bisogna trovare il modo per trasferire l’energia, l’entusiasmo, la visione del ruolo del nostro Paese nel mondo che è all’origine dei loro successi a quella parte dello stesso Paese che oggi è la zavorra che rallenta la crescita. 
Invece di occuparsi di questi, che sono i nostri veri problemi, il governo discute di una «flat tax» che tutto è tranne che «flat» e renderà ancor più complicato un sistema tributario già macchinoso. Si occupa di reddito di cittadinanza che tutto fa tranne stimolare lavoro e spirito imprenditoriale. Una parte del governo litiga con l’Europa, come certo non dispiace a Putin, quando invece le esportazioni e l’apertura al resto del mondo sono l’unica spinta alla nostra crescita, o almeno il fattore che impedisce la decrescita. L’altra parte dice «no» a tutto, anche a iniziative utili per la crescita come alcune infrastrutture (non tutte). Tutto ciò determina una situazione di incertezza permanente che non fa che intralciare chi crea ricchezza e posti di lavoro produttivi.