La Verità, 20 luglio 2019
Intervista ad Arrigo Sacchi
Nel 1989 il Milan di Silvio Berlusconi - che nella stagione precedente, l’anno I di Arrigo Sacchi in panchina, aveva rivinto lo scudetto dopo nove anni e la Supercoppa italiana - conquista Coppa dei Campioni (dopo vent’anni esatti), Supercoppa Uefa e Coppa Intercontinentale. Tripletta bissata l’anno dopo. E pensare che, dopo la prima seduta di allenamento con il nuovo mister, il terzino Billy Costacurta aveva concluso: «Questo dura due mesi». Si sbagliava. Lui come tanti altri. Perché «questo» - cioè Sacchi - per dirla anni dopo con un altro giocatore, Chicco Evani: «Era così avanti che se si voltava indietro, vedeva il futuro». Ecco perché va letto La Coppa degli Immortali, libro scritto da Sacchi (con Luigi Garlando, giornalista della Gazzetta dello Sport) per ricostruire la leggenda della compagine che l’Uefa arrivò a definire «la più forte di tutti i tempi», e non solo per via dei tre olandesi, Ruud Gullit, Marco Van Basten e Frank Rijkaard. E con una finale, vinta per 4 a 0 contro lo Steaua di Bucarest, che farà scrivere a L’Equipe: «Dopo questa partita il calcio non potrà più essere lo stesso»
Non male, per un «signor Nessuno» di Fusignano, in quel di Ravenna. Prima di avvicinarsi al calcio, è vero che collaborava al cineforum del paese?
«Sì, la prima pellicola che proiettammo fu La Corazzata Potëmkin».
Bella mattonata. Condivide lo sfogone di Paolo Villaggio versione Fantozzi: “Una cagata pazzesca”?
«Diciamo che non mi piacque molto».
Con Berlusconi vi sentivate anche due volte al giorno, e all’epoca non c’erano i cellulari. Ha mai interferito nelle sue decisioni?
«Mai. Era estremamente rispettoso dei ruoli. E mi difese quando all’inizio i risultati non arrivavano. Convocò i giocatori: “Sacchi gode della nostra piena fiducia; chi come noi si fida, bene, resta; chi non si fida, può anche andarsene”. Solo una volta violò la sacralità dello spogliatoio: portò in visita prima di un incontro Bobo Craxi e Roberto Formigoni. Ma poi si scusò».
Be’, sull’argentino Claudio Borghi avete discusso un bel po’, alla fine la spuntò lei che voleva Rijkaard.
«Misi sul piatto le dimissioni. Non come provocazione: per coerenza. Borghi non aveva nessuno dei valori che avevo predicato agli altri, che figura avrei fatto con la squadra? Berlusconi rilanciò: “Ok, prendo un altro allenatore, ma lei rimane come amministratore delegato”. Replicai che non ero sicuro di saper fare bene il mio mestiere, dopo 15 anni, figuriamoci quello di dirigente. Fedele Confalonieri commentò: “Mai visto Berlusconi incassare così tanti no in una volta sola”».
La tattica senza strategia è perdente. Sun Tzu. Da lei evocato. Definisca la tattica.
«È l’attesa dell’errore dell’avversario per approfittarne. Noi italiani interpretiamo il calcio come la vita: pensiamo che la furbizia sia un valore, che le conoscenze contino più della conoscenza, che il privilegio sia il diritto di chi può. Siamo un popolo servile che corre sempre in aiuto del potente, per tacere della corruzione e della disonestà. Diceva Winston Churchill: “Gli italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre”. Del resto, nei tempi moderni l’unico conflitto vinto è la prima guerra mondiale. Come? Con il catenaccio sul Piave».
Io ricordo la frase attribuita a Benito Mussolini: «Governare gli italiani non è difficile, è inutile». Secondo lei lo ha imparato anche Berlusconi?
«Berlusconi è stato un innovatore in tutto. Da politico gli imputo solo un errore: non aver mollato quando ha capito che non avrebbe mai potuto realizzare i cambiamenti che aveva in mente e servivano al Paese».
Tornando al calcio: il vizio italico è quello di fare catenaccio per poi ripartire in contropiede. Le invece teorizzava il «calcio totale» della nazionale olandese di Johan Cruijff.
«Ha presente la formazione a testuggine di Giulio Cesare? Ecco. Difendersi correndo in avanti, muovendosi come un sol uomo con un meccanismo a orologeria, giocando a zona in sincronia, tenendo la palla lontano dalla tua porta ma vicino a quella avversaria. Pretendevo undici giocatori in costante posizione attiva, con o senza palla, portiere compreso. Il pressing così concepito e realizzato aumenta l’autostima. E mina quella dell’avversario. Quando un supertifoso come Diego Abatantuono venne a giocare a Milanello, fu messo in mezzo e sottoposto al trattamento: “Ora so come si sente una pallina da flipper”».
Il talento del campione non serve?
«Nella misura in cui lo mette al servizio del collettivo. Per me un giocatore è grande a queste condizioni: gioca con la squadra, per la squadra, a tutto campo e a tutto tempo.
Cruijff lo era».
Zlatan Ibrahimovic invece no?
«Mi chiama Pep Guardiola e mi chiede cosa penso del possibile arrivo di Ibra al Barcellona. Rispondo che indubbiamente è un calciatore di peso, ma con quelli che per me sono quattro difetti: individualismo, protagonismo, egocentrismo, avidità».
Per questo, durante un collegamento tv, Ibra ha battibeccato con lei: deve averlo saputo. Gullit invece ha fatto proprio il verbo sacchiano. Non senza qualche defaillance. Una volta lo accusò di ragionare «più col cazzo che con la testa».
«Piaceva alle donne, e gli piacevano le donne. Quando Berlusconi chiese alla squadra, per vincere lo scudetto, il sacrificio di un mese di astinenza sessuale, lui seraficamente replicò: “Presidente, io con le palle piene non riesco a correre”. Quella volta dovevamo partire per Avellino. La moglie ci chiede notizie visto che non ha dormito a casa. In aeroporto non si presenta all’imbarco, lo trovano addormentato in sala d’aspetto. Quando arriviamo, mi chiudo in camera con lui e gli faccio uno shampoo: “Ti sei visto allo specchio? Non ti vergogni? Sembri un fantasma, è la prima volta che vedo uno di colore diventare bianco”. In campo era come se non ci fosse. Due settimane dopo, nel derby, la sua prestazione fu semplicemente esaltante. Chiese di parlarmi: “Ad Avellino ho sbagliato e le chiedo scusa. Ma in futuro non metta più in mezzo il colore della mia pelle”. Aveva ragione».
C’è razzismo nel calcio?
«C’è mancanza di cultura, di rispetto per l’avversario, c’è maleducazione. Dovremmo andare allo stadio come si va a teatro. Invece qual è lo slogan più scandito? “Devi morire”. Siamo rimasti ai tempi del Colosseo e al pollice verso».
Dopo una partita con il Pisa, il presidente Romeo Anconetani disse, riferendosi a Gullit: «Un mostro in tutto. Ma anche noi abbiamo fenomeni del genere».
«I giornalisti non potevano sapere che non alludeva al calcio. Aveva visto Gullit nudo negli spogliatoi. Anconetani aveva in squadra Paul Elliott, giocava con i bermuda da ciclista sotto i calzoncini».
Non vedo il nesso.
«Mandai Silvano Ramaccioni (il team manager, ndr) a investigare: usava i bermuda perché non c’erano mutande abbastanza grandi per, diciamo così, contenerne la virilità».
Anche del portiere Sebastiano Rossi si magnificavano doti «extracalcistiche».
«Nell’82 vinsi lo scudetto Primavera allenando la giovanile del Cesena. In quel caso fu il presidente della squadra, Dino Manuzzi, a rimanere colpito davanti a Rossi che si stava rivestendo: “Ostia, che usel!”».
Con questi due aneddoti lei ha ammazzato la mia, di autostima. Calcio e omosessualità: un tabù di cui è tabù parlare?
«Guardi, io non ho mai fatto il poliziotto dei miei calciatori: se li facevo giocare, è perché mi fidavo. E se mi fidavo, non andavo certo a controllare se facevano o meno sesso prima del match, o con chi. Quando, allenando una squadra (l’anticipo: non era il Milan), mi fu sussurrato che di uno dei ragazzi si diceva fosse gay, osservai che, visto come rendeva in campo, avrei voluto lo fossero anche gli altri».
Chi sono gli eredi di Sacchi?
«Non mi faccia passare per presuntuoso. Certo, non penso abbia torto Costacurta: “Mister, ci hanno imitato in tutto il mondo, ma non in Italia”. Vedo però che gli strateghi, rispetto ai tattici, sono in aumento: penso a Maurizio Sarri, Gian Piero Gasperini, Marco Giampaolo (oggi allenatore del Milan, che avrei portato al Parma quando ero lì come direttore tecnico agli inizi degli anni 2000), Roberto De Zerbi. Cercano la bellezza del gioco e un calcio di dominio. Anche Roberto Mancini sta costruendo una Nazionale giovane e ambiziosa che attacca con coraggio e non si ferma al risultato».
Perché il nostro calcio a livello internazionale è messo così male?
«Perché innanzi tutto i successi si costruiscono con le idee, i valori e il lavoro. Mi lasci dire: con lo stile. I fatturati c’entrano relativamente. Nel 1989 c’erano tre squadre italiane in finale nelle tre coppe europee. Due le vincemmo. Dall’inizio di questo secolo, tolte le tre Champions (due di Carlo Ancelotti con il Milan, una di Josè Mourinho con l’Inter), non c’è altro, mentre la Spagna ha portato a casa 18 trofei».
La Juve ha investito tanto. Mi chiedo come si concilierà il sarrismo, figlio del sacchismo, con lo stile Juve forgiato dal motto dell’Avvocato, Gianni Agnelli: «Vincere non è la cosa più importante. Ma è l’unica cosa che conta».
«Sto scrivendo un articolo proprio su questo. Se il presidente Andrea Agnelli si è orientato così, qualche ragionamento deve essere stato fatto. Nel libro mi permetto un consiglio non richiesto: per aprire un ciclo vincente in Europa, la Juve deve fare un passo avanti per unire merito, bellezza, forza e vittoria».
Quando - tra cent’anni - verrà meno, sulla sua tomba che epitaffio ci sarà?
«Ha passato la vita a migliorarsi e a migliorare gli altri».
Ci è sempre riuscito?
«Di sicuro ci ho sempre provato».