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 2019  luglio 20 Sabato calendario

Intervista ad Angelo Guglielmi (su Camilleri)

Chissà cosa avrebbero scritto quelli del Gruppo 63 sul grande e perfino ingombrante fenomeno editoriale che è stato (e probabilmente continuerà ad essere) Andrea Camilleri. Probabilmente Edoardo Sanguineti ne avrebbe apprezzato la militanza comunista ma meno la capacità sperimentale del linguaggio; Alberto Arbasino disturbando Adorno si sarebbe immerso negli effetti perversi dell’industria culturale per lamentare infine l’assenza di casalinghe a Porto Empedocle; e chissà se Alfredo Giuliani, pace all’anima sua, davanti all’imponenza del cantastorie d’Italia non avrebbe rivendicato l’indispensabile marginalità del romanzo; forse solo Umberto Eco, forte del suo clamoroso successo, avrebbe visto in Camilleri, o meglio nel commissario Montalbano la prosecuzione felice e localistica del protagonista del Nome della rosa.
Angelo Guglielmi, poco più giovane di Camilleri, è divertito dal gioco letterario che con una certa faccia tosta abbiamo imbastito.
Tu come ti saresti posto davanti a un personaggio decisamente ingombrante che tutta l’Italia oggi celebra?
«Perfino il ministro Salvini, ho appreso, non si è lasciato sfuggire l’occasione».
Pensare che qualche tempo fa Camilleri lanciò proprio sull’infaticabile un certo grido di allarme.
«Che allarme?»
Scrisse che senza voler fare paragoni avvertiva attorno alle posizioni estremiste di Salvini lo stesso consenso che nel 1937 sentiva intorno a Mussolini.
«Non sarà del tutto casuale che M di Antonio Scurati abbia vinto lo Strega. I nuovi tempi sembrano davvero troppo vecchi».
A proposito di premio Strega secondo te è un’ingiustizia che Camilleri non l’abbia mai vinto?
«Non mi risulta che abbia mai voluto partecipare. Che bisogno aveva di un premio che non gli avrebbe aggiunto nulla?».
Se il Gruppo 63 esistesse ancora tu cosa scriveresti di Andrea Camilleri?
«Io ho scritto di Camilleri».
Lo so, ma cosa avresti scritto allora?
«Sarei stato più militante. Erano anni di scontri. Ma Camilleri non è Cassola, per fortuna».
Come Simenon?
«Uhm. Non lo so. Prolifici, grandi artigiani della parola. Sprovvisti di quella timidezza che blocca lo scrittore. Hanno dilagato come fiumi in piena. Però Simenon mi pare si muova in altri contesti».
Che pensi del “camillerese”?
«Intendi la lingua italo-sicula?».
Proprio quell’impasto.
«Sicuramente non è dialetto. È un’invenzione con tutta una terminologia simpatica che ha spinto il successo dei suoi libri. Tutti giocati sul gusto della rappresentazione. Del resto proveniva dal teatro».
Teatro fatto soprattutto per la Rai.
«Lo conobbi sotto quella veste. Era produttore teatrale rifiniva i testi, li sceneggiava con sveltezza, competenza e intelligenza. Potevi dargli una commedia di Eduardo o un dramma di Ibsen e sapevi che era in buone mani. Allora, parliamo dei primi anni Sessanta, non immaginavo che sarebbe diventato uno scrittore».
Quando lo scopristi?
«Grazie al suo secondo romanzo Un filo di fumo che gli pubblicò Garzanti. Camilleri veniva qualche volta a trovarmi e un giorno mi raccontò di quanto avesse penato prima di trovare un editore che credesse in lui».
Che impressione ricavasti da quel libro?
«Restai fortemente stupito. Non era un romanzo di fatti e di aneddoti, ma una costruzione astratta nella quale si percepiva il lento svanire della realtà. Ecco, se devo fare un paragone pittorico somigliava a un quadro di Mondrian, meno freddo e geometrico. Si avvertiva ancora sullo sfondo la presenza di una realtà storica; l’ambientazione in una Sicilia di fine Ottocento che stava sparendo. Garzanti pretese che alla fine del romanzo ci fosse una specie di glossario che spiegasse il massiccio ricorso al dialetto siciliano».
Una costante in tutta la sua narrativa.
«In quasi tutta, diciamo che è il suo vero motore creativo. È chiaro che uno scrittore non esiste al di fuori della propria lingua. E non può essere la lingua quotidiana».
Perché no?
«Nella quotidianità è difficile rintracciare significati ulteriori o nascosti, quel sostrato misterioso che rende inesauribile il romanzo. Lo scrittore può usare la quotidianità, servirsene ma non lasciarsene condizionare. Quindi Camilleri che pure era un maestro delle cose semplici, in realtà era piuttosto complesso».
Si era affezionato al genere giallo.
«Ma i suoi erano davvero dei libri gialli?».
Che risposta ti sei dato?
«Lo sono in apparenza. Anche il Pasticciaccio di Gadda ha l’apparenza di un giallo, in realtà è ben altro. È l’invenzione linguistica che guida il romanzo e non viceversa. Non è un caso che la prima volta che il commissario Ingravallo parla lo fa in un misto di abruzzese e romano. Con la sua lingua “inventata” il commissario Montalbano compie qualcosa di analogo».
Davvero Camilleri come Gadda?
«Ovviamente si parla di grandezze diverse, ma l’atto linguistico eversivo li accomuna».
Non vedresti Camilleri più simile a Simenon?
«Solo per la quantità di cose che hanno scritto, per il resto faccio fatica a paragonarli».
Eppure hanno entrambi creato una figura di commissario che ha sedotto milioni di lettori.
«Non lo discuto. Da questo punto di vista sono stati due meravigliosi artigiani della parola di genere. Ma poi ciascuno l’ha calata nel proprio contesto. Il problema non è che le ambientazioni parigine sono differenti da quelle di Vigàta, il problema è che hanno due lingue diverse. Più classica quella di Simenon, più trasgressiva quella di Camilleri».
Trasgressiva?
«Sì, nel solco di quella tradizione che annovera calibri come Joyce e Cèline e perfino Gadda. I quali creavano pastiche letterari e non romanzi di genere. Il genere serve a Camilleri per veicolare qualcosa di più ambizioso: la natura imprendibile della lingua».
Cosa vuoi dire?
«Te la metto così: come mai uno scrittore come Camilleri adopera una lingua “incomprensibile” che tutti capiscono? Walter Benjamin disse una cosa secondo me molto acuta, disse che a un certo punto della storia umana l’oralità era diventata il punto più alto della narrazione. Solo quando finisce l’oralità, quando di colpo entra in azione la solitudine dell’individuo, solo in quel momento nasce il romanzo moderno».
Camilleri come entra in questa riflessione?
«Quando finisce la parola che vale per tutti, che tutti capiscono, lì si fanno strada le strutture narrative che ancora ci accompagnano. Cosa c’entra Camilleri? Lo scrittore siciliano in un certo senso smentisce l’asserzione di Benjamin. Egli è anche un grande scrittore che si muove sui tempi dell’oralità. È moderno per la spinta innovativa che imprime alla lingua, ma al tempo stesso è antichissimo perché non rinuncia alla parola per tutti».
È una specie di ossimoro.
«Riassume in sé le due grandi tensioni del narrare occidentale. Non è facile ritrovarle in altri scrittori e soprattutto in lui non l’ho percepita immediatamente».
Quando ci sei arrivato?
«Alla fine degli anni Novanta Elvira Sellerio mi invitò a un convegno dedicato a Camilleri. Elogiai i suoi libri ma di fronte al fatto che ne sfornava uno ogni tre mesi lo invitai a contenersi. Insomma gli rimproverai una certa incontinenza narrativa. Ricordo che alla fine mi sorrise come se la cosa pur riguardandolo non lo toccasse. Ero io a sbagliarmi. Quello che giudicavo in lui come irrefrenabile era in realtà la sua naturale sapienza a saper raccontare il mondo come fosse un’appendice della sua parola orale. Non mi pare secondario che Camilleri abbia continuato a scrivere anche da cieco. Gli bastava dettare, come fosse un antico Omero».
Tanta naturalezza a cosa si deve?
«Non lo so, qui parliamo di doni. Da dove arrivano? Boh. Mi viene in mente, anche se siamo su un altro piano, Umberto Eco con Il nome della rosa. Guarda caso anche Eco adotta il genere giallo, ma non sceglie la via linguistica bensì quella strutturale».
Spiegati.
«Costruisce un impianto medievale e lo cala nel mondo inimmaginabile di una biblioteca aristotelica dove si favoleggia di un manoscritto inesistente sul comico attribuito ad Aristotele. Ce ne è abbastanza per incuriosire il lettore. Eco non inventa una lingua per raccontare tutto questo, inventa una struttura del tutto nuova, dove i tempi e le epoche si mescolano meravigliosamente. Sia Eco che Camilleri guardano all’antico ma lo fanno con strumenti differenti».
La loro modernità in che cosa consiste?
«Nel fatto che ne sono perfettamente consapevoli. Non è un’operazione innocente la loro, ma molto, molto meditata. Uno si è servito della semiologia l’altro del teatro, come grande esperienza dell’oralità. Cosa c’è, tra le forme d’arte, di più antico del teatro? Ma il teatro è costruzione narrata, dialoghi che richiedono una consumata esperienza. Ci fu a un certo punto un dissidio tra Pasolini e Camilleri. Pasolini voleva realizzare un’opera per la televisione e pretendeva, secondo i suoi dettami finto ingenui, l’uso di attori non professionisti. E Camilleri si rifiutò sostenendo che non c’è recitazione più complessa di quella condotta dall’attore teatrale. Non fecero in tempo a chiarirsi perché Pasolini finì nel modo che sappiamo».
Quanto ha influito il mondo siciliano sulla scrittura di Camilleri?
«Si può anche azzardare l’affermazione che Vigàta sia stata la sua Macondo. Poi ci sono i grandi scrittori siciliani ai quali lui è sempre restato legato».
Ci sono soprattutto Pirandello e Sciascia.
«Camilleri ha sempre riconosciuto l’autorità di Pirandello e la sua grande forza innovatrice, non tanto nella lingua quanto, come nel caso di Eco, nella struttura. Pirandello crea quello che non c’è e si serve dell’enigma per giustificare questa presenza assente. Sciascia mi pare un caso diverso. Come Camilleri anche Sciascia non ha disprezzato il genere giallo e i loro romanzi si sono prestati a riduzioni cinematografiche. È segno della facilità con cui sapevano scegliere la trama».
Li definiresti scrittori civili?
«Lo sono stati in maniera diversa. Sciascia era un critico del mondo nel quale era calato e col quale non si riconosceva. Era un meraviglioso maldicente. Le storie di Camilleri non prendono quasi mai la distanza dalla realtà. È la lingua che se ne allontana per spiegarla meglio».
Cosa avresti voluto dirgli se lo avessi incontrato ancora una volta?
«Nel corso dei miei anni alla Rai ci siamo visti spesso. Veniva a volte a trovarmi e quello che mi colpiva di lui era la sommessa, sorniona ironia mista a una palese discrezione. Magari mi capitava di raccontargli di qualche mia disavventura sentimentale e lui ascoltava muovendo il capo dall’alto in basso. E poi che ti devo dire? Sarei andato volentieri, proprio in questo mese, a sentirlo alle Terme di Caracalla recitare il suo Caino. Pensa quali sonorità sarebbero venute fuori da quel racconto biblico. Peccato che non abbia fatto in tempo a realizzarlo».
Ti piace il Montalbano televisivo?
«So che milioni di persone seguono religiosamente il Montalbano televisivo come fosse Sanremo. Ne sono felice. Ma ti dirò una cosa che ti sorprenderà: non vedo mai la televisione. Mi piaceva farla, non esserne spettatore. Forse è qualcosa che mi resta ancora attaccato dall’esperienza del Gruppo 63. Dunque non so se Montalbano mi potrebbe piacere. So che vorrò leggere l’ultimo romanzo di Camilleri che mi dicono essere piuttosto straordinario».