il Giornale, 20 luglio 2019
A Cortina con Andreotti
Ma a sorpresa, un bel giorno si alzò di scatto dal tavolo, chiuse il taccuino e decise di fare sport: oggi, annunciò a moglie e figli, tutti su al Faloria. Certo, una bella arrampicata. «Macché, si saliva in funivia – racconta Stefano, il secondogenito – Lui non faceva mai più di due passi, figuriamoci una scalata del genere». Comunque la voce si sparse nella valle e ben presto la stazione d’arrivo fu presa d’assalto da curiosi, villeggianti arricchiti, turisti con la macchina fotografica, clientes, insomma dal tipico generone estivo cortinese. Tutti volevano vedere il Divo Giulio con le gambe a penzoloni. L’impianto si bloccò e da allora Andreotti fu costretto a ripiegare su qualche blanda camminata sulla strada della ferrovia. Molto blanda. «I miei amici sportivi – ripeteva- sono morti da tempo».
Un’altro bel giorno, erano gli anni sessanta, scoprì la Polaroid. «Ragazzi, mettetevi vicini, fermi, così, sorridete». Belzebu’, così lo chiamavano in parecchi, era affascinato da quella che considerava una «scatola diabolica», un attrezzo che stampava istantanee in pochi secondi senza bisogno di portare il rullino a sviluppare. «La considerava un prodigio della tecnologia – ricorda il nipote Luca Danese – Ogni scusa era buona per radunarci e provare su di noi la macchina. Però, siccome lui era un po’ rigido e non si chinava molto, le immagini uscivano compresse, con le nostre teste schiacciate in basso quasi fuori dall’inquadratura e sopra, per tre quarti della foto, solo gli alberi e il cielo. Ma zio insisteva. Ci rimetteva in posa, scattava, soffiava, riprovava».
Quello di Giulio Andreotti con Cortina e’ stato un rapporto forte, durato quasi quarant’anni. «Noi restavamo un mese, papà soltanto una settimana o poco più a cavallo di Ferragosto – spiega Stefano – Verso il venti ripartiva e, sulla strada per Roma, si fermava a Rimini, per il Meeting di Cl. Qualche volta venivamo pure a Natale». D’estate pochi giorni molto intensi. Il convento delle Orsoline, ai piedi del Faloria, si trasformava nel quartier generale della «famiglia invisibile» e, in certi periodi, nella sede distaccata di Palazzo Chigi. Frammenti, ricordi. I bauli zeppi di documenti e decreti da firmare, tra cui quello del carcere duro per i mafiosi. I notabili in udienza. Le brevi passeggiate. Le lunghe telefonate a Roma. Le tante conversazioni con i ragazzi e gli amici. «Voleva sapere tutto, era un grande ascoltatore, chiedeva ai nostri amici che ne pensassero del ’68, del Medio Oriente, o degli altri problemi del momento». Vedeva Gianni Agnelli, Indro Montanelli e Enzo Biagi, portava i bambini a mangiare i krapfen caldi alla pasticceria Alvera’. Riceveva. Scriveva. Nei paraggi c’era sempre un alto prelato. «Spesso ospitava il cardinale Felici, un grande amico, erano stati compagni di scuola». Incontrava, talvolta, il re del Belgio. O il presidente italiano.
Come nell’estate del 1991. Francesco Cossiga era arrivato in elicottero da Pian del Cansiglio e sfoggiava pedule montanare, jeans e una camicia a quadri. Andreotti aveva addosso il solito cardigan bianco, cioè il suo massimo dell’abbigliamento sportivo. Quel giorno c’era fermento, le scorte vigilavano, le monachelle si affannavano con i dolci, i bambini erano stati spediti a giocare altrove con gli album Panini: per non sbagliare, nonno Giulio comprava sempre tutte le figurine, così i nipoti non dovevano nemmeno fare i cambi di faccette. Però il terrazzo delle Orsoline era pieno di gente. No, non si poteva proprio definire un vertice istituzionale, ma nemmeno una rimpatriata tra vecchi amici davanti a una tazza di cioccolata calda, perché in ballo c’erano diverse questioni importanti da chiarire, tipo la grazia per Renato Curcio. Il capo dello Stato chiedeva, il presidente del Consiglio spiegava, i toni salivano. Finché di colpo, un botto fortissimo. «Sembrava una bomba – ricorda Stefano Andreotti – Gli agenti accorsero, qualcuno tirò fuori la pistola, tutti pensammo al terrorismo, invece era caduto un grosso vaso dal balcone di sopra. Mio padre se ne uscì con una delle sue solite battute: tranquillo, France’, tu non c’entri, deve essere qualche suora che ce l’ha con me». E alla fine per il capo Br niente clemenza.
Vacanze blindate: del resto per il sette volte capo del governo non poteva che essere così. Ma Andreotti a Cortina d’Ampezzo non faceva certo una vita ritirata. Di giorno, quando non scriveva uno dei suoi sessanta libri, passeggiava sulla strada della ferrovia, costretto a forza dalla moglie Livia Danese. Talvolta si prendeva la rivincita con dei blitz pomeridiani al caffè Lovat, ufficialmente per «comprare i dolci per i ragazzi», che in realtà erano anche per lui. «Appena poteva mangiava qualunque tipo di schifezza – ricorda il figlio – Una volta a Gerusalemme fu l’unico a trangugiare delle orribili frittelle». Per non parlare delle spedizioni all’Armentarola per il pranzo di Ferragosto: ore a tavola, mangiate infinite.
Al tramonto c’erano le mostre alla galleria Contini o le presentazioni di libri all’hotel Savoia. La sera spesso a cena fuori. Frequentava i ristoranti migliori di Cortina, e i più alla moda: Baita Fraina, il Caminetto, Lago Scin, il Posta. Oppure andava a casa di amici. «Lo invitavano sempre – ricorda Stefano – e papà rifiutava di rado». Alle undici però scattava il coprifuoco, ordinato dall’inflessibile signora Livia, chiamata in famiglia «la colonnella». A lei toccava dire i no che aiutano a crescere. «Mio padre invece era più aperto, sosteneva che dovevamo decidere noi e pagarne le eventuali conseguenze. Bisognava, ci spiegava, sbatterci la testa. Un’estate, sorprendendo tutti, disse di si a mio fratello Lamberto allora sedicenne che voleva andare a un concerto dei Rolling Stones, chissà dove e chissà con chi». Libertà e protezione. Dice Serena, la quarta figlia: «Papà ci ha sempre difeso dalle interferenze indebite, alzando una linea di demarcazione tra la vita pubblica e quella privata».
Ma pure lui ogni tanto veniva viziato. Una volta a Natale i nipoti gli regalarono una montagna di Gratta e Vinci: passò tutta la sera a raschiare i cartoncini. «Per farlo felice – racconta Stefano – bastava comprargli una confezione di Nougatine o di caramelle Rossana».
Poi le carte, altra passione dopo la Roma, le corse dei cavalli, il cinema e la politica. Peppa, tressette, canasta, ramino, gin rummy: Andreotti era quasi imbattibile. «Vinceva sempre lui – dice Luca Danese – Grazie al suo cervello, dopo la seconda mano aveva già memorizzato le carte in mano agli altri giocatori. Non ce n’era per nessuno». E l’ippica. «Leggeva tutti i giornali – ricorda Stefano – ma nella mazzetta non potevano mai mancare Il Trotto e Il Cavallo, le bibbie del settore. Negli ultimi anni, quando aveva deciso di lasciare Cortina per un posto più tranquillo, aveva scelto Merano perché c’è l’ippodromo. Tra una chiacchierata con Silvyus Magnago, il fondatore della Svp, e una cena con i cardinali dell’Alto Adige, lui trovava il tempo di fare una puntatina». Vinceva spesso, dicono, anche lì.