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 2019  luglio 20 Sabato calendario

Intervista a Enrico Ruggeri

Dal 2017 a oggi, Enrico Ruggeri ha compiuto 60 anni, scritto un’autobiografia (Sono stato più cattivo, Mondadori), riaperto il «laboratorio dei Decibel» (parole sue), con cui non faceva dischi dal 1980, pubblicato un album tutto suo, Alma.
Alma si apre con una canzone scritta con suo figlio Pierenrico (in arte Pico Rama), una sorta di bilancio di vita…
«Pico aveva la musica, quasi tutta, e una sola frase: "La paura che mi prende parte dal profondo di me". Il resto è mio. Sì, è curioso scrivere un pezzo con un figlio che ha 33 anni meno di te e parlare della fase avanzata della vita». 
Ha cominciato a pensarci?
«Forma 21, sull’album, parla di quello, della morte. Quando morì suo marito Lou Reed, Laurie Anderson scrisse su Twitter: "È morto mentre faceva la forma 21 del tai chi, le sue mani andavano verso il cielo e ho letto in lui un’espressione di stupore". Anche a me è capitato di assistere una persona negli ultimi attimi e vedere stupore».
Nel libro per parlare di morte usa l’espressione «andare altrove». Quindi un altrove c’è?
«Sì, nulla avrebbe senso se non ci fosse il pensiero di un altrove. Perché tutti cercano di lasciare qualcosa di sé? In un mondo così ingiusto, peraltro, in cui uno muore a tre anni, l’altro a 90, uno nasce miliardario e l’altro senza nulla da mangiare… Qualcosa dopo succede».
Lou Reed è stato importante per lei?
«Sì, lui e David Bowie. Bowie premiato dal mercato, però capace di cambiare sempre. Lou Reed refrattario al mercato. Due lezioni di vita, al di là delle canzoni meravigliose».
A proposito di mercato, ha detto di essere stato in passato troppo accomodante. Davvero?
«Nei rapporti di lavoro mi sono fidato eccessivamente. Ma è la storia del 90% dei cantanti: se hai la sensibilità per scrivere canzoni è difficile che tu sia un uomo d’affari. C’erano anni in cui sarebbe stato meglio fare venti palasport e poi sparire. Quando ho vinto Sanremo con Mistero ho fatto 180 concerti. Il fatto è che sul palco mi diverto, ho un entusiasmo perfino eccessivo. Ci sono salito su 3500 volte. Tante, anche in 40 e più anni di carriera».
Le annota ancora sul diario?
«L’ho fatto finora, perché smettere? Niente di speciale: torno a casa e mi segno i pezzi fatti».
Lo fa anche Gianni Morandi.
«Sì, lui tiene il diario e anche la contabilità, io quella no».
Rocker o cantautore, lei si muove sempre in gruppo.
«Un tempo era la norma, oggi nessuno sa chi è il chitarrista di Mengoni o il bassista di Tiziano Ferro. Un tempo se ti piaceva suonare cercavi altri con cui farlo. Oggi suoni per diventare famoso. Non c’è urgenza di esprimersi. È rivalsa sociale».
Per lei la musica cos’era?
«Trovare una dimensione mia. Sono Ruggeri della III H, quello che suona. Suono, quindi non c’entro niente con voi. Così pensavo a 15 anni». 
È ciò che intende per «punk»?
«Prima del punk c’era il prog, musica meravigliosa che potevi suonare solo se avevi fatto il Conservatorio. Poi arriva il punk, vai a Londra e trovi ragazzi che suonano peggio di te, però sono i Clash, i Sex Pistols, i Damned. Hanno rabbia, forza, identità di suono. Capisci che anche senza Conservatorio puoi dire la tua». 
Più che musicale, approccio…
«Ideologico. La prima volta che in Italia si usa la parola punk fu per i Decibel. È inoppugnabile». Racconta la storia della sua famiglia. È stato liberatorio?
«Discendo da famiglie che erano state ricche e di elevata classe sociale: mia nonna paterna aveva una cappella in casa per non abbassarsi ad andare in chiesa. Ho ereditato il disprezzo, la nonchalance per il denaro dei ricchi, ma ho anche la rabbia dei poveri, perché quando sono arrivato io era crollato tutto. Non ho ereditato niente. Una situazione ideale».
Dal punto di vista culturale e musicale cosa ha ereditato?
«Mia madre era una pianista classica, mio padre ascoltava molta musica, solo classica. I miei avevano quarant’anni più di me, erano veramente un’altra generazione. La classica era la musica delle élite. È ciò che oggi è il rock».
Il rock è d’élite o per anziani?
«Un 65enne di oggi aveva 11 anni quando Keith Richards scriveva il riff di Satisfaction, ha il diritto di essere più rocker di un sedicenne. Poi ai concerti vedo tanti ragazzini. Ma è un’élite, a ogni età».
Della musica di oggi non c’è niente che le piace?
«Non è che non c’è niente, è che io non la ascolto. Il primo concerto della mia vita a 15 anni è stato Emerson Lake & Palmer, a vent’anni andavo al Marquee per i Damned, ho visto dal vivo Paul McCartney, Bowie, Lou Reed, Yes, Genesis, King Crimson… Non ho voglia di sentire i dischi di questi qua. Non è snobismo, semplicemente se vado a casa e metto su Selling England by the Pound sono più contento». 
Altri tempi… L’era social ci condanna alla superficialità?
«Gli ottimisti dicono che ci condanna alla sintesi, ma la sintesi spesso è superficialità».