La Stampa, 20 luglio 2019
Nell’ostello della guerra di Sarajevo
Non è un’attrazione per turisti, tanto meno un classico ostello. Si dorme in camerata, ma senza letto, acqua corrente e riscaldamento. In sottofondo il fragore della guerra. Ad aprire la porta c’è «Zero One», nome in codice di Arijan Kurbašić, uno dei tanti giovani nati appena prima che Sarajevo diventasse il triste teatro del più lungo assedio nella storia contemporanea.
Quel bambino oggi ha 27 anni ed ha trasformato la casa dove è sopravvissuto insieme alla sua famiglia per 1.425 giorni, «e 1.425 notti» come ci tiene a sottolineare, nel «war hostel», letteralmente l’ostello di guerra, in pratica un luogo dove provare a capire cosa significa vivere sotto assedio. «Non è un gioco, è destinato a chi vuole comprendere - racconta Arijan -. Solo chi non è mai sopravvissuto ad una guerra può volerne una».
La linea del fronte
Per arrivarci, si attraversa la Baščaršija, il cuore pulsante della capitale bosniaca, e si passa il fiume all’altezza della Vijećnica, l’edificio dell’ex biblioteca nazionale di Sarajevo, distrutto dagli assedianti serbi nell’estate del 1992 e diventato il simbolo della devastazione culturale della città, riaperto solo 5 anni fa. Poi ci si arrampica tra le tipiche stradine di Sarajevo, non lontano da quella che era la linea del fronte. La casa è ancora segnata dal conflitto, così come tante altre a Sarajevo. «Zero One era il nome in codice di guerra di mio padre - spiega -. Questo ostello è un omaggio: noi siamo sopravvissuti. Ora con questa attività aiuto la mia famiglia e ho l’opportunità di condividere la nostra storia con chi è disposto ad ascoltare. Non si viene qua per curiosità, per dormire e andare via. Per questo chiedo di rimanere almeno due notti. Vengono turisti, certo, ma anche studenti, ricercatori, persone dall’estero e dalla Bosnia. È aperto a tutti coloro che vogliono capire».
Niente telefoni e pc
Ci mostra le stanze: ci sono alcune camerate e una doppia e, come in ogni ostello, un’area comune, dove riflettere con vista sulla Vijećnica. «Questa era la nostra cucina, questo invece il soggiorno», commenta passando da una stanza all’altra. Lui era troppo piccolo per ricordare ma è tutto drammaticamente vero. Si dorme per terra su un letto da rifugio antiaereo costruito con coperte umanitarie, le finestre sono chiuse dai teli dell’Unhcr, fornite per ripararsi dal freddo e per nascondersi dai cecchini. Niente internet, lasciate a casa telefonini e pc. Ci sono solo un paio di batterie per auto per alimentare alcune luci improvvisate. Niente acqua corrente, per lavarsi servirà raccoglierla utilizzando le taniche di 25 litri in uso in tempo di guerra. Ci chiede di provare a sollevarla e immaginare cosa voleva dire farlo per sua madre e per le tante madri di Sarajevo. Si respira l’umidità, ci sono solo delle stufette: la legna da ardere la trovi appena fuori la porta di casa. Niente colazione, solo un po’ di riso, cibo da guerra. Alle pareti articoli di giornale, in lingua inglese, pubblicati durante il lungo assedio, per leggere e immedesimarsi in quell’inferno. L’unico lusso è sapere che fuori dall’ostello non si spara più.
Ha allestito anche un piccolo museo, riproducendo un bunker sui ricordi di suo padre. Presto vicino all’ostello sarà costruita la strada principale per accedere alla cabinovia che dal centro porta al monte Trebević, riaperta un anno fa dopo il lungo stop a causa della guerra. «Passeranno tante persone, potranno venire anche nel mio piccolo museo – commenta -. Sarà gratis».
«Sono un sopravvissuto»
A chi dice che è un luogo dove si «gioca» a fare la guerra risponde: «Assolutamente no, non sono un fanatico – commenta -. Questo è il mio personale impegno per far sì che non succeda più. Non mi interessa la politica, sono un sopravvissuto. Stando qua si può capire quanto sia importante svegliarsi tutte le mattine sulle proprie gambe». Ci chiede di riaccendere il registratore, ha ancora una cosa da dirmi: «Il war hostel può essere troppo estremo per alcuni ma non importa, venite a Sarajevo. Se la mia storia serve ad attirare attenzione sulla nostra storia, avrò raggiunto il mio obiettivo».