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 2019  luglio 20 Sabato calendario

Ines Geipel racconta il doping di Stato della Ddr

Il record del mondo nella staffetta 4X100 è ancora il suo. Imbattuto dal 1984. Ma al posto del suo nome, in tutti i registri ufficiali compare solo una stellina. Ines Geipel ha chiesto di essere cancellata da quel record. Perché era figlio del doping di Stato. Geipel si batte a fianco delle vittime da quando l’apertura degli archivi della Stasi ha scoperchiato il verminaio dello sport di regime. L’ex atleta, che oggi insegna letteratura, fu vittima di una delle più atroci punizioni che la Stasi abbia mai inflitto a uno sportivo. Ed è uscito un suo commovente libro sulla sua famiglia ancora dilaniata da un padre spia della Stasi, un Terroragent infiltrato in Occidente.
Geipel, com’era vivere nella Germania est?
«Il paese era stretto, una gabbia. Pochi colori. E diventava ancora più stretto se volevi fare qualcosa. I miei erano comunisti, mio padre un agente della Stasi - anche se all’epoca non lo sapevo».
Chi era suo padre?
«Ufficialmente, un insegnante. Ma ciò che nessuno sapeva, a parte mia madre, è che dal 1974 faceva la spia. Per 15 anni andò continuamente in Occidente con otto diverse identità. Chi fosse veramente, non lo so. Ma in quegli anni di paure, di missioni pericolose, in cui forse si è perso, mio padre tornava a casa e si sfogava con noi. La violenza era normale».
Da giovane lei ha cominciato a fare sport. Perché?
«Lo sport ad alti livelli era il Sacro Graal. La Ddr voleva essere meglio dell’Urss, degli Usa. E per noi, "generazione del Muro", era l’opportunità di vedere Roma, Parigi o il Messico. Diventava come un "doppio muro". Quando tornavamo dai viaggi, era come se qualcuno avesse spento la luce e si sentisse puzzo di piscio».
Cosa si sapeva allora del doping?
«Nessuno sapeva che c’era un piano segreto per imbottire di ormoni gli atleti. Le pillole erano ovunque. Ci dicevano che in un Paese con poche vitamine dovevamo prendere quella roba. E noi docili, ingenui. La prima lezione di ogni dittatura è che non si può essere ingenui».
Molti ex atleti sono morti per gli effetti del doping di Stato.
«Sì, ho presieduto l’associazione delle vittime del doping. 14mila atleti sono stati dopati sistematicamente dal 1974 al 1989 e centinaia sono morti e anche molti figli sono malati.
Il doping cominciava a otto, nove anni».
Dove sono gli aguzzini, i medici, gli allenatori del doping di Stato?
«Dopo la caduta del Muro si sono sparsi in tutto il mondo, e con loro, la sporcizia. Con la caduta del Muro la chimica non è certo sparita. Gli aguzzini sono anche qui in Germania. Ci sono però due importanti leggi per i risarcimenti che sono contenta di aver promosso».
Torniamo alla sua storia. Ad un certo punto lei si innamora.
«Sì, era il 1984: il mio anno orwelliano. Eravamo a Los Angeles per allenarc i e mi sono innamorata di un atleta messicano. La Stasi se n’è accorta e ha avviato un "processo distruttivo" contro di me. Il primo passo fu quello di cercare un uomo nella Ddr che avesse un aspetto messicano».
Incredibile. Perché la seducesse?
«Sì. Poi, siccome non funzionò, due agenti vennero da me e cercarono di reclutarmi. Li cacciai. L’ultimo stadio fu la decisione di danneggiarmi fisicamente. Non potevano ammazzarmi perché ero troppo brava a correre. Ma i documenti su di me cominciano così: "Vva distrutta strategicamente". Nel linguaggio della Stasi, come nei clan mafiosi, vuol dire che devi essere espulso».
Cosa successe?
«Andai dal medico perché avevo dolori allo stomaco. Mi dissero che dovevo operarmi di appendicite. Non era vero. Volevano neutralizzarmi senza uccidermi. Scambiarono l’equipe di medici e li incaricarono di distruggermi gli addominali e di danneggiare parecchi organi interni. La mia carriera era finita. Io non intuii nulla. Seppi dopo la caduta del Muro cos’era successo. E sono viva solo perché un bravo chirurgo mi rioperò mettendomi a posto gli organi interni».
Com’era il rapporto con suo padre? La Stasi gli chiese di lei, no?
«Sì, gli chiesero varie volte se ero "sicura". Un paio di volte disse di sì. Ma poi cominciò a dire di no».
Lei sostiene che siano troppo pochi i cittadini della Germania est che hanno richiesto di vedere i documenti della Stasi. Perché?
«Stetti malissimo quando lessi i documenti su mio padre. Mi mancava la terra sotto i piedi. Che infanzia avevo vissuto? Chi ero? Quindi capisco chi non vuol vivere un’esperienza del genere e rimanere all’oscuro di tutto. Ma io penso che dovremmo essere molto più grati della fortuna che abbiamo nel poter chiarire e vedere i documenti».
Come sono i rapporti con sua madre?
«Non mi parla perché non volevo vivere nella menzogna. Perché sono una scrittrice, ne parlo e ne scrivo. Ma mi chiedo: che vita è, 50 anni di silenzio? Di impossibilità a dire la verità? Mi colpisce la sua tenace resistenza al cambiamento».