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 2019  luglio 20 Sabato calendario

Intervista a Biagio Conte

Biagio Conte, missionario, è nato a Palermo.

La prima volta che sparì, nel 1990, voleva rendersi invisibile al mondo, tanto che dopo un anno dovette intervenire Chi l’ha visto? a consolare i genitori e la fidanzata disperati: dalla Sicilia aveva raggiunto a piedi Assisi per pregare sulla tomba di san Francesco. Ora fratel Biagio Conte ha deciso di lasciare di nuovo Palermo, salpando per Genova su un traghetto, epitome di tutti i barconi che solcano il Mediterraneo. L’itinerario della camminata non sarà meno impegnativo: Svizzera, Germania, Francia, Lussemburgo, Belgio, Olanda, Danimarca, passando per le tre sedi del Parlamento europeo, 4.000 chilometri fra andata e ritorno. «Sento di vivere l’esperienza di emigrante italiano che diventa immigrato clandestino», spiega alla vigilia della traversata questo mistico dagli occhi azzurri venerato come un santo laico, che ha pronunciato i voti di povertà, castità e obbedienza pur non entrando in alcun ordine religioso. Lo accompagnano il saio, i calzari e un bastone nodoso. Non ha il cellulare, non usa l’e-mail, non guarda la tv.
Per capire chi è fratel Biagio, fondatore della Missione di speranza e carità, bisogna venire qui, in via Archirafi 31, nel primo dei quattro rifugi per derelitti che ha aperto a Palermo, ai quali se ne sono aggiunti altri tre in Sicilia e uno in Ghana. Era il Disinfettatoio comunale per la quarantena dei militari malati. Ora ospita 120 emarginati, dall’anziano che schiaffeggia le inferriate con il Mocio Vileda ai due artisti tunisini che affrescano le pareti con scene bibliche. La provvisorietà è inscritta sull’architrave all’ingresso: «Il Signore fino ad oggi ci ha soccorso».
Da quanto tempo la soccorre?
«Dal 5 maggio 1990. Me ne andai da casa di notte, lasciando una lettera di addio ai miei che diceva: “Scusatemi, ma purtroppo non mi avete capito”. Non portai neppure i documenti».
Per non essere riconosciuto?
«Per sottrarmi a una vita di ingiustizie. Tentai più volte di digiunare fino alla morte. E guardi come sono le vie del Signore: ora mi conduce in Svizzera e in Olanda, nazioni che spingono al suicidio i depressi com’ero io, e in Danimarca, dove i Down vengono uccisi nel ventre delle loro madri».
Quanto durerà il nuovo cammino?
«Un anno. L’ultima volta ho peregrinato per otto mesi, fino in Marocco».
Perché lo fa?
«Per portare speranza. Ovunque vado, chiedo di aprire una mensa, un dormitorio e un oratorio giovanile».
Come si definirebbe?
«Piccolo servo inutile».
Che cosa non andava nella sua vita?
«Non capivo quale significato avesse. A 16 anni interruppi gli studi per entrare nell’impresa edile di papà. Mi stordivo con auto di lusso, griffe, belle ragazze. Vestivo solo di grigio o di nero, la mia vita non aveva colori».
E poi?
«Me ne andai a Firenze. Sognavo di diventare pittore o scultore».
Non lo è diventato.
«Mia madre mi ha confessato: “Da quando stavi nella mia pancia, sapevo che tu non eri per me, ma per Dio”».
Fu poco cristiano abbandonarla.
«Mi vedevo missionario in Africa. L’ho incontrata a Palermo».
Fu dura la marcia verso Assisi?
«Non avendo né carta geografica né bussola, rischiavo di cadere nei dirupi. Dopo giorni di cammino, spesso mi ritrovavo al punto di partenza».
Che cosa mangiava?
«Pinoli, cardi selvatici, erbe o fave e piselli rimasti nei campi dopo il raccolto. Alle persone per strada domandavo pane e acqua. Ci aggiungevano il companatico e un letto per la notte».
Perché non s’è fatto frate?
«Non è dipeso da me. È il buon Dio che sceglie al posto mio. Avevo letto la vita di san Francesco, mi sentivo portato per la perfetta letizia. Ad Assisi bussai alle porte dei francescani, ma non mi fecero entrare. Dissero che non c’era posto. I miei voti laici li ho pronunciati nell’Oasi della speranza costruita da Franco Mazzola qui a Palermo, sulle pendici del monte Grifone».
Da chi ha avuto questa sede?
«Dal Comune, dopo 13 giorni di sciopero della fame. Era abbandonata da 30 anni. Non dimenticherò mai la mattina del 1993 in cui mi fu affidata. Era il 15 settembre, data della nascita e della morte del beato don Pino Puglisi. Lo conobbi in municipio, dove si era recato a supplicare aiuto per la sua missione di Brancaccio. Quella sera stessa fu assassinato dai mafiosi».
A quante persone dà un tetto?
«Circa 1.100».
Sono tante. Ma come fa?
«Ci pensa la Provvidenza».
E come fa la Provvidenza?
«Nelle fattorie fuori Palermo, gli ospiti mangiano quello che producono. Riceviamo qualche donazione».
Ha ottenuto anche un miracolo.
«Con fratel Giovanni lavoravo come muratore e facchino fino alle 3 di notte per sistemare le nostre case. A un certo punto non sono più riuscito a camminare: schiacciamento delle vertebre. Sono finito in sedia a rotelle. Un disabile mi ha convinto a recarmi in pellegrinaggio a Lourdes: “Se non vieni anche tu, non ci vado neppure io”. Era il 2014. Appena uscito dall’acqua delle piscine, ho avvertito una forza straordinaria. Tornato a Palermo, all’improvviso mi sono alzato dalla carrozzella. Da allora, più avuto problemi alla schiena».
Ha convinto Riccardo Rossi, ex addetto stampa del ministro Alfonso Pecoraro Scanio, a vivere come lei.
«Da 16 anni non metteva piede in chiesa. Era in crisi profonda. Aveva anche perso l’impiego, perché non se la sentiva più di attaccare la parte politica avversa. Qui da noi, durante le ronde notturne per rifocillare i barboni, ha conosciuto Barbara Occhipinti, un’altra volontaria. Insieme hanno dato vita al nostro giornale, La Speranza. Si sono sposati nel 2016 e il beato Puglisi dal cielo ha messo a loro disposizione un alloggio nella Casa del Vangelo».
Pare che lei abbia avuto almeno tre fidanzate. Non le mancano le donne?
«Fanno parte della vita precedente».
Dicono che paragoni la sua avventura a quella di sant’Agostino.
«Non mi permetterei mai. Il mio faro è Francesco. Però ho coltivato tutti i vizi possibili e immaginabili, questo sì. Ero un buongustaio, ora sono parco e vegetariano. Mangio solo la sera. Ormai credo di aver totalizzato una ventina di digiuni senza cibo né liquidi».
L’ultimo di 16 giorni, sdraiandosi in strada, a favore di Paul Yaw Aning.
«È un idraulico ghanese, arrivato in Italia 13 anni fa per lavorare a Bologna. Lo hanno licenziato. Ora esegue riparazioni gratis nelle case dei poveri. Ci sono volute tre sentenze per revocare il decreto di espulsione».
A quale dei sette vizi capitali cede?
«La superbia».
O l’ira? Ha inveito contro il Comune che le aveva mandato una bolletta da 84.700 euro per arretrati sui rifiuti.
«Non ho inveito. Mi sono caricato sulle spalle una croce di legno e ho girato in silenzio per le vie cittadine».
Da quanto non incontra il prossimo più prossimo, cioè i suoi genitori?
«Da pochi giorni. Sono molto legato a mia madre. Lei sostiene di avere le visioni e che sono nelle mani della Madonna. Ho ottimi rapporti anche con mio padre e le mie due sorelle più piccole. Forse ho spianato la strada alle loro conversioni».
Chi ha cucito il suo saio?
«Francis Ayim, un sarto del Camerun. Ne ho un altro di ricambio».
Serve, se devi andare dal Papa.
«Benedetto XVI volle incontrarmi. Francesco lo scorso settembre ha pranzato nella nostra mensa di via Decollati. Gli ho consegnato una lettera».
Posso conoscerne il contenuto?
«No, non può».
Che cosa si prova a portare il cognome del presidente del Consiglio?
(Sorride senza rispondere).
Se fosse premier, che farebbe per gli sbarchi di migranti in Sicilia?
«“Ero forestiero e mi avete ospitato”, Vangelo secondo Matteo. L’ho ricordato all’altro Matteo».