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 2019  luglio 19 Venerdì calendario

Biografia di Jacques Delors

Jacques Delors (Jacques-Lucien-Jean D.), nato a Parigi il 20 luglio 1925 (94 anni). Politico (Partito socialista). Economista. Già presidente della Commissione europea (1985-1995) e ministro dell’Economia e delle Finanze francese (1981-1984). Ex europarlamentare (1979-1981). «L’Europa è come la bicicletta: ad andare piano si fa più fatica e si è instabili. Bisogna pedalare forte» • Figlio di un impiegato della Banca di Francia, vi entrò a propria volta nel 1945, per poi completare il proprio percorso di studi in ambito giuridico ed economico e ricoprire quindi posizioni di crescente importanza all’interno dell’istituto, in cui rimase fino al 1962. Parallelamente, sin da giovanissimo, animato dalla fede cattolica e da simpatie socialiste, si era avvicinato alla politica, dapprima aderendo ad alcune formazioni giovanili cristiane e poi approdando al mondo sindacale, con l’ingresso nella Confederazione francese dei lavoratori cristiani (Cftc). «Nel 1957 la Cftc gli affida l’incarico di animare il Bureau de recherches, d’analyses et d’études de la Confédération (Braec). Nel 1964 partecipa alla creazione del nuovo sindacato laico, uscito dalle fila della Cftc, che diventerà la Confédération française démocratique du travail (Cfdt). In precedenza, nel 1960, aderisce al Parti socialiste unifié (Psu), che però abbandonerà ben presto. Anima un proprio club, Citoyens 60, creato nel 1959, che fa riferimento al “mounierismo” e al socialismo utopistico dei primordi, cioè a Proudhon e a Fourier. La formazione di questi primi anni permette di illuminare il profilo di Delors, che è stato spesso considerato atipico sia negli ambienti dell’amministrazione che in quelli della politica. Egli può essere considerato un esponente della cosiddetta “seconda sinistra”, che non fa riferimento al marxismo pur facendone oggetto d’analisi. La seconda tappa che porta Delos ad approfondire il suo impegno intellettuale e politico, e che progressivamente lo indirizzerà verso le questioni europee, è la nomina a capo del servizio affari sociali del Commissariato generale del Piano, nel 1962. Poi, dal 1969 al 1972, è consigliere del primo ministro Jacques Chaban-Delmas nel primo governo del presidente Georges Pompidou, per gli affari sociali e culturali e, in seguito, per le questioni economiche, finanziarie e sociali. È l’iniziatore del progetto della Nouvelle Société presentato da Chaban-Delmas, che tuttavia si rivela un clamoroso fallimento sia per il governo che per lo stesso Delors. Alla morte di Pompidou, nel 1974, lascia il governo. Nel frattempo diventa membro del consiglio generale della Banca di Francia (dal 1973 al 1979). Sul piano politico, nel 1974 aderisce con François Mitterrand al nuovo Partito socialista: diventerà successivamente delegato nazionale del Ps per le relazioni economiche internazionali (dal 1976 al 1981), poi nel 1979 membro del comitato direttivo del partito. […] Nel 1979 Delors è eletto deputato al Parlamento europeo, e fino al 1981 è presidente della Commissione economica e monetaria. Poi, nel 1981, è nominato ministro dell’Economia e delle Finanze dal presidente Mitterrand, un incarico che manterrà fino al luglio 1984. Il suo ministero si segnala per le misure di rigore prese a partire dal giugno 1982, a causa di un deficit pubblico eccezionale, e anche per il clamore mediatico che Delors suscita nel marzo 1983 allo scopo di mantenere il franco nel Sistema monetario europeo (Sme). In effetti, si trattava di far uscire il franco dallo Sme a causa della sua debolezza, ma Delors riuscì a evitarlo, decidendo una svalutazione. Nel governo fa passare una legge sull’iniziativa economica, per incoraggiare la creazione di imprese e l’occupazione, e un’altra legge per la creazione di fondi salariali. […] Il 18 luglio 1984 è nominato presidente della Commissione europea dagli Stati membri, su proposta di Mitterrand e in accordo con il cancelliere tedesco […] Kohl. […] Mantiene questo incarico fino al 1995, con due mandati successivi e due anni supplementari» (Régine Perron). «Jacques Delors ereditò dal lussemburghese Gaston Thorn, giustamente caduto in oblio, una Commissione malconcia, umiliata, dal prestigio ridotto pressoché a zero. Lascia un organismo che […] ha ritrovato il ruolo motore che gli avevano attribuito i fondatori della Comunità. Vi hanno contribuito tanti elementi, certo, ma anche e soprattutto la personalità del suo presidente» (Franco Papitto). «Jacques Delors è stato il principale artefice delle iniziative normative e delle riforme economiche che porteranno alla creazione del mercato comune prima e della moneta unica poi. Del febbraio 1986 è l’Atto unico europeo, che pose le basi dell’integrazione economica» (Francesco Russo). «Due esperienze influenzavano la mia visione quando nell’85 venni nominato presidente della Commissione europea. La prima era la svalutazione del dollaro, a cui seguirono caotici tentativi di arginare le oscillazioni tra le monete europee: né il primo sistema monetario europeo né il "serpente" ebbero successo, perché le decisioni di politica economica dei Paesi erano troppo distanti. Inoltre ero stato influenzato dalla mia esperienza da ministro delle Finanze francese: quando entrai in carica l’inflazione era al 14%. Prima di tutto, i governi dovevano essere convinti della necessità di una moneta per l’Europa. […] Il governo inglese voleva limitare l’integrazione europea agli aspetti economici. Per i tedeschi invece il motivo del rifiuto era legato al loro rapporto con il marco e alla politica della Bundesbank, che aveva portato tanto successo al loro Paese. […] Tedeschi e inglesi si opposero fino al Consiglio Ue in cui fu deciso l’Atto unico. Alla fine Kohl si convinse, e nacque la speranza che un giorno l’Europa si sarebbe posta la questione della moneta comune». «Dall’Atto unico, che riforma il Trattato di Roma, nascono a un tempo due prospettive. La prima è quella di estendere la competenza della Cee anche alle questioni politiche e militari. Il segretariato per la cooperazione politica che l’Atto unico prevede sfugge dalla competenza della Commissione, ma indica la volontà dei Dodici di innalzare il loro livello di cooperazione. Una tale decisione politica non può non ripercuotersi sulla vita quotidiana della grandiosa macchina burocratica di Bruxelles. Delors parla allora di un’Europa a due velocità: pensa da un lato a una grande zona di libero scambio, cui possano aderire anche i Paesi nordici, la Svizzera, l’Austria; e disegna invece un nucleo più solido, legato a una vera cooperazione politica, che unisca i Paesi fondatori ai nuovi venuti, Spagna e Portogallo, dotati di maggior fede europeista. Ma l’interesse per un’Europa politica e militare viene meno man mano che si delinea la ristrutturazione del sistema sovietico con una radicalità imprevedibile. Quando tutto è in movimento all’Est, non è possibile abbandonare i termini stabili delle politiche occidentali: essi possono essere adattati solo quando il processo dell’altra Europa assuma un volto di stabilità. Rimane così la grande carta di realizzare ora quello che il Trattato di Roma intendeva realizzare dodici anni dopo la firma del patto: cioè la libera e completa circolazione di uomini, capitali e merci all’interno dello spazio europeo. Questa grande operazione di immagine è riuscita. Delors ha ottenuto, dopo l’Atto unico, di poter indicare all’Europa dei Dodici una finalità incarnata in una data: il 1992. L’operazione ha avuto successo perché essa non sembra richiedere nulla di sconvolgente: chiede solo di attuare il senso e la lettera del Trattato. Ma da quel momento Delors diviene un soggetto di politica interna in tutti i Paesi europei. Lo diviene soprattutto in Inghilterra. Egli ha osato dire a Strasburgo che negli anni Novanta si può prevedere che l’80 per cento della legislazione economica dei Paesi europei passerà per Bruxelles e non per le capitali dei dodici Paesi. No, risponde il premier Thatcher, non ci saranno Stati uniti d’Europa, non ci sarà moneta comune, né imposte coordinate. Curiosamente, i ruoli si invertono: è il socialista dirigista francese che gioca fino in fondo la carta del libero mercato, ed è l’ideologa della libera iniziativa in Europa quella che ferma la logica del libero mercato alle frontiere britanniche» (Gianni Baget Bozzo). «All’inizio dell’88 c’era un’atmosfera euforica. La prospettiva del mercato unico e il successo dell’Atto unico avevano trasformato il clima. Milioni di posti di lavoro venivano creati e gli investimenti aumentavano costantemente. Genscher e Balladur [all’epoca, rispettivamente vicecancelliere e ministro degli Esteri della Repubblica Federale Tedesca e ministro dell’Economia e delle Finanze francese – ndr] avevano dato nuovo slancio al dibattito sulla moneta. In un incontro vicino a Friedrichshafen con Kohl ci trovammo d’accordo sul fatto che fosse il momento di puntare al futuro dell’Europa in materia economica e monetaria. Ci accordammo che la Germania avrebbe fatto una proposta ai partner. Fu proposta la creazione di un Comitato per verificare le condizioni per un’unione monetaria. La decisione sarebbe rimasta ai governi, ma insistetti che i governatori facessero parte del Comitato. Kohl voleva affidarmene la presidenza, e tutti i capi di governo, compresa la signora Thatcher, furono d’accordo. Molti pensavano che non saremmo mai riusciti ad accordarci. Si sbagliavano». «È nella capitale spagnola, il 26 e il 27 giugno 1989, che, approvato il rapporto di Delors, nonostante le fiere resistenze della signora Thatcher, comincia il cammino concreto dell’Euro. Che, dopo un importante passaggio per Roma nella seconda metà del 1990 (presidenza di turno italiana, con nuovo scontro con gli inglesi, perso dalla Thatcher, che ci rimette anche il posto), porta alla notte, ma, diciamo meglio, all’alba di Maastricht. (Quanto all’euro, ancora non ha questo nome: si parla di ecu, l’unità di conto più che altro teorica del vecchio Sme: il nome euro […] verrà ancora a Madrid, in un altro importante vertice sotto presidenza spagnola, nel dicembre 1995)» (Aldo Rizzo). «Erano anni difficili per il progetto comunitario, stretto tra il forte euroscetticismo della Gran Bretagna, allora guidata da Margaret Thatcher (è del 1990 la triviale, ma storica, copertina del Sun che mandava a quel paese l’allora leader dell’esecutivo europeo con un inequivocabile “Up yours, Delors”) e il difficile processo di riunificazione della Germania» (Russo). Al tempo del consiglio europeo di Maastricht (9-10 dicembre 1991), infatti, «la Germania era unificata da un anno, l’Unione Sovietica giunta al capolinea, nell’ex Jugoslavia soffiavano venti di guerra. La consapevolezza che la risposta fosse nell’accelerare il processo di integrazione era condivisa, si doveva inseguire la Storia che aveva ripreso a correre. Così, davanti ai partner che temevano il nuovo corso tedesco, il cancelliere Kohl elaborò col presidente della Commissione, il francese e socialista Delors, l’idea di una grande unione politica ed economica in cui far confluire moneta, diplomazia, difesa, questioni sociali, mercato. Inseguivano una Germania europea per eliminare la paura di un’Europa tedesca. A bloccare tutto fu il francese, e pure socialista, François Mitterrand. Accettava che a Bonn si rinunciasse al Deutsche Mark, ma non che si intaccasse la Grandeur del suo Paese. Il fronte “federalista” a cui ambiva Delors si sgretolò in fretta, e sulla riva della Mosa si parlò di sola Unione economica e monetaria, nel disegnare la quale Kohl e i suoi si tolsero lo sfizio di introdurre parametri duri per i bilanci, il famoso 3% massimo del deficit sul Pil e il 60% per il debito. L’accordo si fece perché non c’era altra opzione, e sembrò comunque un sogno» (Marco Zatterin). «Nel 1992 verrà creato lo Spazio economico europeo e saranno siglati i Trattati di Maastricht, che porteranno alla nascita dell’Unione europea, fisseranno i parametri base dell’attuale Patto di stabilità e crescita del 1997 e spianeranno la strada verso l’istituzione dell’euro. Nel 1994 sarà il turno dell’Istituto monetario europeo, che verrà guidato da Wim Duisenberg, poi primo presidente della Banca centrale europea» (Russo). «Il processo è stato messo a rischio ancor prima di cominciare. Parlo dell’incubo dello Sme nel ’92-’93. La speculazione era schiacciante, e la sterlina e la lira non poterono rimanere nello Sme. Poi fu il turno del franco a finire nel mirino. Solo un patto franco-tedesco evitò l’irrimediabile. […] Tutto è avvenuto così velocemente… Per questo spesso io dico che l’Europa è capace di compiere miracoli». Ormai prossimo alla definitiva conclusione del suo mandato alla guida della Commissione europea, Delors, accreditato in patria di amplissimi consensi, fu caldamente sollecitato dal Partito socialista, che versava allora in uno dei momenti più difficili della sua storia, a candidarsi all’Eliseo, in vista delle elezioni presidenziali del 1995: Delors temporeggiò lungamente, per poi dichiarare nel dicembre 2014, nel corso di un’intervista televisiva, la propria indisponibilità, che gettò nello sconforto i socialisti, il cui candidato di ripiego, Lionel Jospin, fu infatti poi sconfitto dal repubblicano Jacques Chirac, nonostante il sostegno dello stesso Delors. «Delors spiega il suo gran rifiuto: “La mancanza di una maggioranza coerente mi avrebbe impedito di fare le riforme che credevo indispensabili”. Socialista e insieme fervente cattolico, Delors avrebbe voluto per la Francia un “centrosinistra” che la storia stessa della politica francese ha sempre respinto. “Le soluzioni che io pensavo per la Francia erano molto lontane da quelle elaborate dal congresso del Partito socialista…”» (Cesare Martinetti). «È raro che un uomo politico, accompagnato da una simpatia popolare tanto estesa, diserti la massima competizione elettorale. Una rinuncia del potere tanto plateale (sia pure di un potere ancora virtuale) non ha precedenti nella storia democratica di Francia. […] Ma Jacques Delors non è un uomo politico tradizionale. È un "ingegnere sociale". In questa differenza si nasconde il significato – per molti aspetti nobile – del suo rifiuto. Questa differenza che ha reso impossibile la sua candidatura era anche quella che lo rendeva attraente, presidenziabile, agli occhi di molti francesi. […] Delors è un uomo politico atipico, più animale sociale che altro. Più interessato alle riforme che agli umori degli elettori. Non ha mai voluto affrontare vere campagne elettorali. È stato sindaco di Clichy, nella periferia parigina, e deputato europeo. Mitterrand, animale politico per eccellenza, ha sempre detto di lui che è "un pessimo candidato e un ottimo presidente". Ossia incapace di manovrare politicamente e al tempo stesso adatto per esercitare la funzione di capo dello Stato in una Repubblica che affida tanto potere alla carica. Se i presidenti venissero nominati (da un’entità astratta capace di riconoscere i meriti autentici), Delors sarebbe insomma il personaggio ideale. La diagnosi di Mitterrand è forse la più esatta. […] Lui è un "ingegnere sociale". Può riformare la società, non creare le condizioni per riformarla. A settanta anni ha rinunciato all’impresa. Ha rappresentato per una breve stagione il sogno irrealizzabile di tanti francesi. E ha avuto l’onestà di riconoscerlo, per non deluderli. Molti francesi hanno capito che proprio le virtù che apprezzano in Delors lo rendono un presidente impossibile o irreale» (Bernardo Valli). Negli anni successivi lo statista, per breve tempo candidato anche alla presidenza della Banca centrale europea (incarico poi affidato a Duisenberg), pur rimanendo membro del Partito socialista si allontanò progressivamente dalla politica nazionale, per dedicarsi principalmente, anche con la sua fondazione “Notre Europe – Institut Jacques Delors”, al dibattito europeo, che curò sempre di stimolare, apportandovi spesso proposte e iniziative. Ed è proprio per il suo «notevole contributo allo sviluppo del progetto europeo» che, nel giugno 2015, Delors è stato insignito dal Consiglio europeo del titolo di «cittadino onorario dell’Unione europea», precedentemente conferito solo a Jean Monnet (1888-1979), nel 1976, e a Helmut Kohl (1930-2017), nel 1998 • «Gli Stati devono praticare il rigore, l´Unione europea il rilancio. Lo slogan non è mio, ma di Tommaso Padoa-Schioppa» • «Si può dire che la formazione di Jacques Delors, la sua ispirazione religiosa e la sua vocazione sociale, il suo impegno nel sindacato e il suo ingresso, attraverso il Commissariato al Piano, nel mondo della gestione pubblica, abbiano trovato il loro coronamento nell’adesione e quindi nella totale dedizione alla causa dell’Europa unita. Il rapporto stabilito con il Partito socialista gli permise tra l’altro di contribuire non poco all’impegno europeista di quella forza fondamentale della politica francese, e più in generale del movimento socialista in tutta l’Europa. Nell’assolvere le funzioni di presidente della Commissione di Bruxelles, Jacques Delors portò […] tutto il bagaglio ideale, morale e professionale affinatosi nelle fasi precedenti della sua vita e della sua missione pubblica» (Giorgio Napolitano). «Il “delorismo” è una filosofia politica complessa nella quale il solidarismo cristiano si mescola a elementi di socialismo e a un senso acuto della democrazia, Mounier si sposa con Marx. La “bibbia” del delorismo è Cambiare, un’opera autobiografica e di riflessione pubblicata nel 1975. La critica è andata alla ricerca delle fonti del delorismo, e ha trovato: "Prima derivazione: Mounier e ‘l’esecrabile ideale piccolo borghese’; seconda derivazione: Baudrillard e ‘la logica generalizzata dello scambio’; terza: il Marx della ‘ineluttabilità della crisi’; quarta: Morin sulla ‘gioiosa accettazione del rischio’”. L’uguaglianza è fondamentale nel delorismo, fino ad auspicare anche un certo livellamento dei salari e dei patrimoni. "La lotta contro la disuguaglianza deve essere il nostro compito infinito". Prima che lo scoprisse l’americano John Rawls, Delors scriveva in Cambiare: "La meritocrazia e l’individualismo sono strettamente legati. Fiorisce nelle nostre società un modello di riferimento esclusivo, gerarchico, che permette a una minoranza di accumulare tutti i vantaggi: il potere, la ricchezza, il lavoro interessante, il modello di vita. I beneficiari difendono aspramente la loro posizione. La tentazione meritocratica implica un sistema di caste e di privilegi". Altra parola magica nel delorismo è “solidarietà”: le esclusioni, che siano razziali o sociali, fanno inorridire Delors. Fu il padre della “formazione permanente” in Francia perché ognuno potesse essere recuperato e reinserito nella vita sociale. […] In una conferenza stampa, […] Delors si scagliava contro "una società nella quale nessuno si gira a guardare chi è rimasto ai margini della strada"» (Papitto) • Sposato dal 1948 con la basca Marie Laphaille, conosciuta quando era una giovane impiegata della Banca di Francia. Due figli: Martine (1950), nota come Martine Aubry (dal cognome del primo marito), ex ministro ed ex segretario del Partito socialista, e Jean-Paul (1953-1982), giornalista morto giovanissimo di leucemia • «Atipico, come dicono i suoi amici, o amletico, come sibilano i suoi critici, Jacques Delors è un monumento vivente della costruzione europea. Senza il suo lavoro di dieci anni come presidente della Commissione forse l’euro non avrebbe mai visto la luce e l’anima “sociale” dell’Europa si sarebbe persa nelle battaglie tecnocratiche. Ma è anche l’uomo dei grandi appuntamenti mancati nella politica francese, a cominciare dal 1995, quando rifiutò di prendere il testimone di François Mitterrand e di candidarsi all’Eliseo. […] Appartiene alla cosiddetta “seconda generazione” dei padri dell’Europa: nessuna frivolezza, ma giudizi molto netti, seguendo una delle frasi preferite da Jean Monnet (uno della “prima” generazione): […] “Il mondo è diviso in due, tra quelli che vogliono essere qualcuno e quelli che vogliono realizzare qualcosa”» (Martinetti). «Senza di lui, dopo il rigetto del progetto Spinelli da parte dei governi, l’Europa comunitaria non avrebbe più avuto un centro e un futuro. Delors ha fatto della Commissione un centro propulsivo di idee e di progetti, mostrando una notevole capacità di abbandonare il vecchio per il nuovo quando esso non sembrava più portare frutto» (Baget Bozzo). «Jacques Delors non ha perso quel magico mix di realismo quasi cinico e di idealismo quasi religioso che hanno fatto di lui uno dei Padri dell’Europa, e senza dubbio l’artefice più efficace della sua integrazione» (Andrea Bonanni) • «“Quando nell’89 presentammo il "Rapporto Delors" che fu alla base dell’unione monetaria, la parte dedicata all’economia era più importante di quella dedicata alla moneta. Contrariamente a quello che sostengono certi osservatori anglosassoni un po’ prevenuti, ero e sono convinto che si potesse fare l’unione economica e monetaria senza bisogno di avere un’unione politica. All’unione politica non ho mai creduto: le divergenze in politica estera erano troppo importanti, come poi la guerra in Iraq ha dimostrato. Ma la moneta unica non può sopravvivere senza un forte coordinamento delle politiche economiche”. E lei ci ha provato? “A Maastricht ho perso un battaglia. Avevo chiesto che tra i criteri ce ne fossero due sul lavoro: disoccupazione giovanile e lavoratori oltre i sessant’anni. Ma li hanno bocciati. Sono rimasti solo parametri relativi ai bilanci pubblici. Nel ’97, come presidente di Notre Europe, ho proposto che si desse vita a un coordinamento delle politiche economiche che bilanciasse il potere della Banca centrale europea. Ma i tedeschi non hanno voluto, per paura che facesse ombra alla Bce. E questo è il risultato”. Era prevedibile, secondo lei? “Lo pensavo allora e lo penso adesso: si può avere una moneta unica senza unione politica, ma non senza un vero coordinamento delle economie. Nel Libro bianco del ’93, avevamo proposto gli eurobond e un piano di grandi lavori pubblici europei. È stato approvato dai capi di governo, ma non si è fatto nulla. I ministri delle finanze non ne hanno mai voluto discutere”. […] E perché è successo tutto questo? Perché l’unione economica non è mai nata? “È venuta meno la voglia di cooperare. La maggior parte dei capi di governo ignora come funziona l’Europa e disprezza il metodo comunitario. Lasciamo pure stare Kohl e Mitterrand, ma l’euro è stato tenuto a battesimo anche da leader come Lubbers, Andreotti, Dehaene. Il progetto europeo è stato colpito da due fattori: la mondializzazione e il culto dell’immediato. I mass media ogni giorno rincorrono una nuova emergenza, come se quella del giorno prima fosse risolta. I cittadini sono persi tra la dimensione locale e quella mondiale, e per molti di loro la risposta identitaria è quella del localismo e del populismo. E i governi li assecondano e li inseguono. Nessuno più ha la capacità culturale di indicare l’Europa come un modello a cui rifarsi. Abbiamo perso la memoria di dove veniamo. Come possiamo avere la visione di dove vogliamo andare?”» (Bonanni). «All’inizio il progetto è nato sulla scia dell’entusiasmo del dopoguerra, ma si è poi trasformato in un qualcosa di elitario, concentrato sulla parte economica. Per farla semplice: l’Europa non è una federazione come gli Stati Uniti. Per creare una democrazia comune gli intermediari non possono che essere i governi nazionali, e, se questi scelgono di parlare dell’Europa di oggi come se fossimo ancora ai tempi del Congresso di Vienna, allora non c’è niente da fare. […] Tra gli europei ci vorrebbe una vera comprensione reciproca, e non soltanto interessi comuni. Bisogna tenere viva questa fiamma. Una volta ho detto che l’Europa ha bisogno di un’anima. Posso aver sconvolto qualche credente, ma io ho pronunciato questa affermazione in senso laico. E oggi l’Europa ha ancora bisogno di un’anima».