la Repubblica, 19 luglio 2019
Ridateci Kevin Spacey
Se pensate che basterà il non luogo a procedere per ridarci Kevin Spacey, siete troppo ottimisti. Il procuratore del Massachusetts che avrebbe dovuto perseguirlo in un caso di molestie, dopo che la presunta vittima ha candidamente ammesso d’aver manipolato le prove, ha dichiarato che le accuse verranno lasciate cadere; ma questo, lo sa chiunque abbia sfogliato un giornale nei quasi due anni di MeToo, non conta niente.
Ad azzerare la carriera di Spacey non è stata quest’accusa portata in tribunale, ma una detta in un’intervista: nell’ottobre 2017, un attore racconta che trent’anni prima, lui quattordicenne, Spacey l’ha molestato. Il principio base del MeToo è stato da subito che qualunque testimonianza dicesse senz’altro il vero e qualunque accusa, senza bisogno d’essere provata, bastasse a privarti della carriera. (Il MeToo è faccenda interna al mondo dello spettacolo, i cui mestieri sono evidentemente percepiti come privilegi: nessuno pretenderebbe mai la chiusura d’una panetteria perché il fornaio ha molestato la cassiera). Fu così che un hashtag uccise Frank Underwood, il Riccardo III postmoderno che teneva su coi suoi soli monologhi House of Cards, una serie per il resto scombinatissima. Alle persone sensibili toccò fingere contentezza – ora la protagonista assoluta sarà Robin Wright, largo alle donne – ma la stagione conclusiva di House of Cards consisteva in una brava attrice che vagava dentro una serie scombinata.
Lo sostituirono in Tutti i soldi del mondo, il film di Ridley Scott sul rapimento Getty, ma non poterono far altro che chiudere in un cassetto Gore. Il film sulla vita di Gore Vidal era pronto, ma Spacey l’appestato ne era protagonista assoluto: mica si poteva interamente rigirare (e poi facendolo interpretare a chi?). Ora potrebbero farcelo finalmente vedere, ma non lo faranno. Il perché l’ha spiegato Louis CK, un altro paria che – dopo che quattro signore hanno detto a un giornale che si era masturbato davanti a loro avendo domandato e ottenuto permesso, ma loro avevano acconsentito senza essere davvero convinte – ha aspettato un anno e mezzo prima di tornare a fare monologhi comici. L’altra sera era a Milano, in un teatro da mille posti («Non so se sapete che facevo i palasport», ha detto l’uomo che quattr’anni fa faceva tre tutto esaurito al Madison Square Garden – ventimila posti – e ora va in tour in Polonia); qualcuno del pubblico gli ha chiesto se fosse prevista una nuova stagione della serie di cui era autore e protagonista, Louie. «Non credo proprio, visto che non posso più lavorare in America. Ci vorrebbero due milionari che decidono di buttare i loro soldi producendola». Quella fuori dai tribunali è una condanna a vita: CK lo sa, lo sa anche Spacey. Però Woody Allen – di cui il MeToo dice che è un molestatore, dopo che i tribunali l’hanno assolto – ha appena fatto una regia d’opera alla Scala, e a settembre in Italia vedremo il suo film. Forse Netflix potrebbe cedere Gore a una distribuzione cinematografica italiana: potremmo diventare territorio d’accoglienza per quelli la cui esistenza è stata cancellata da quell’orwelliano Ministero della Verità che è Hollywood.