ItaliaOggi, 18 luglio 2019
Andrea Camilleri fu lo specchio di molte Sicilie
A dispetto dei denigratori del web, anonimi e non, con la scomparsa di Camilleri si chiude un’epoca che ha caratterizzato la vita civile degli italiani, teledipendenti e affezionati al suo Montalbano o lettori e affascinanti dalla sua produzione narrativa. Il premio Nobel agrigentino Luigi Pirandello aveva scritto: «Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti» Parole che mi sono tornate alla mente apprendendo della scomparsa di Andrea Camilleri, lo scrittore italiano contemporaneo più noto nel mondo. Un ingegno, come si dice oggi, multidisciplinare, sviluppatosi nella romana Scuola di cinematografia, e affermatosi nella regia e nella sceneggiatura. La scrittura che ha allargato i confini del suo successo è stretta parente di quella vocazione originaria.Perciò, la Sicilia di Camilleri, terra elettiva delle sue storie cartacee, ci presenta tante maschere e alcuni volti. Innanzi tutto la maschera della sua terra, una delle tante Sicilie, il cui orizzonte spazia tra i monti Sicani e il mare lucido di fronte alla Valle dei Templi o a Porto Empedocle, la città in cui era nato il 6 settembre 1925. La terra dei suoi racconti è fondamentalmente questa, ma viene trasformata da un approccio espressionista che, utilizzandone umori, sapori, colori e umanità, la idealizza, la trasforma in archetipo, rendendola, perciò e, in qualche misura, universale. Se tanti siciliani amano (ma alcuni dissentono) la scrittura di Camilleri è proprio per questa forte dose di irrealismo nel quale trova posto un ampio ricorso alla cifra caricaturale. L’ironia non è merce gradita nella «Kennst du das Land, wo die Zitronen blühn», nella terra dove fioriscono i limoni (J. W. Goethe, Kennst du das Land, wo die Zitronen blühn – 1795) anche se, in alcuni ambienti fertilizzati dai contatti con la cultura europea, viene accettata e riproposta, spesso in una macabra distorsione.
L’ironia profonda e penetrante trova un posto significativo nella narrativa del creatore di Montalbano, soprattutto nei romanzi cui il commissario è estraneo. Si tratta di storie meno corrive di quelle ambientate negli uffici di polizia di Vigata e destinate al grande pubblico televisivo. In esse coesistono il paradosso, la sicilianità e la capacità di creare intrecci appassionanti.
Certo maschere. Le maschere sono fatte in serie, e il ricorso a esse in letteratura è piuttosto frequente, visto che aiuta, e molto, alla messa in scena. Penso a una delle sue prime opere, la prima che lessi, decenni fa, Il birraio di Preston. Una vicenda ambientata a Vigata (invece che a Caltanissetta) e ispirata alla relazione di Sonnino e Franchetti del 1876, il primo contributo organico alla conoscenza del fenomeno mafioso. Il tema è il diffuso malcontento popolare per l’occupazione piemontese e per l’ottusa amministrazione dell’isola, accresciutosi per l’intervento del prefetto Bortuzzi (nella realtà Fortuzzi) che intendeva far mettere in scena per l’inaugurazione del nuovo teatro l’opera lirica Il birraio di Preston del compositore napoletano Luigi Ricci. La storia va avanti in modo farsesco, talora drammatico, e l’autore si concede un virtuosismo da professionista della narrazione: i capitoli possono essere letti senza rispettarne l’ordine, dato che si tratta sempre dei medesimi fatti narrati da punti di vista diversi.
Ecco, Camilleri – lo ripetiamo – è stato un soggettista e uno scenografo che ha trasferito la sua fantasia, il suo genio nella carta stampata, ottenendo un successo irripetibile. Perciò, dobbiamo tornare alla sua Sicilia, la protagonista vera delle sue storie. Toponimi inventati per raccontare luoghi reali, nei quali, tuttavia, si potrebbero specchiare altre mille località dell’isola, intendiamoci tutte del triangolo Caltanissetta-Ragusa (per molti versi a lui estranea)-Agrigento. E un linguaggio inventato e immaginifico, in sostanza un «pastiche» nel quale si confonde il siciliano-siciliano e il siciliano immaginario dei pubblici televisivi.
Non c’è dubbio che la bulimia narrativa che ha contraddistinto gli anni del successo di Andrea Camilleri (cui peraltro ha corrisposto un costante gradimento del suo pubblico) può aver nuociuto alla qualità complessiva della sua opera. Di essa, si capirà nel tempo cosa diranno i critici e gli storici. In fondo, come tutti i romanzieri, l’inventore di Vigata racconta se stesso e il suo tempo, realizzando con uno sterminato lavoro una sorta di metastoria dei nostri tempi, ambientadola in Sicilia, nella quale la presenza della criminalità organizzata è un flebile modulo narrativo. Prevale l’umanità quotidiana, l’esegesi dei normotipi in circolazione nel mondo immaginario di Vigata e dintorni.
Rimarrà nella mente di tanti lettori italiani una Sicilia misteriosa e implausibile, nella quale le tare storiche che la affliggono si trasformano in tare generali diffuse ovunque e, quindi, moderatamente tipiche. Per il siciliano dei nostri tempi, il crimine che la affligge nasce a Roma e nella politica. Se è così, i siciliani sono innocenti vittime di cupole criminali sorte altrove. È questa innocenza fittizia, il campo in cui Camilleri sviluppa la sua qualità narrativa, la sua farsa, le sue maschere che non sanno di essere maschere e si credono (come i batraci della Batracomiomachia) uomini.
Si è detto e ripetuto che il «fenomeno Camilleri» non apparteneva al mondo della letteratura: personalmente non condivido il giudizio e credo che un posto di rilievo spetti allo scrittore agrigentino. L’opera di Camilleri appartiene alla storia della letteratura nazionale e siciliana, ma è anche, come metastoria, storia di costume. In essa, si ritroveranno le talee di un modo di vivere nel mondo contemporaneo portandosi dietro i pregiudizi e i costumi del passato. Se i suoi romanzi sopravviveranno al tempo, lo dirà, appunto, il tempo e di esso, ormai e ratio senilitatis, non dispongo più in modo adeguato. Abbiamo questionato, in passato io e Camilleri. Senza rinunciare alle mie argomentazioni, alle mie doglianze, di fronte alle sue spoglie mortali, depongo le armi e mi chino, rispettoso, il capo.