la Repubblica, 18 luglio 2019
Torniamo alle poesie a memoria
Pare che in Italia più di un ragazzo su tre – ma in alcune regioni del meridione addirittura due su tre – giunto all’esame di Stato non sia in grado di comprendere appieno i testi, anche brevi, che gli capiti di dover leggere: «Ah, sì? So’ contento!» ha detto un amico mio di Cisterna al bar, l’altra sera. «Così v’imparate, ve possin’ammazzà».
Quando eravamo ragazzini noi negli anni Cinquanta, già in terza elementare cominciavano a farci studiare sul libro di lettura le poesie a memoria e sul sussidiario la storia e la geografia: gli Egizi, la Grecia, Romolo e Remo, Orazio Coclite. In quarta e quinta toccava a Carlo Magno, al Medioevo, al Rinascimento, Cristoforo Colombo, Risorgimento, Cavour, Garibaldi ed Unità d’Italia. Poi il latino alle medie – Rosa, rosae sul Tantucci – e di nuovo storia e geografia fino alla maturità, oltre ovviamente a un’altra caterva di poesie a memoria.
Dice: «Ma tu sei scemo, non vorrai mica ancora le poesie a memoria nel 2019?». No, lo scemo sei tu. In primo luogo la memoria è un muscolo: se non la usi ti si atrofizza e diventi un’ameba. Non la puoi delegare al computer, alla fotocopia o al telefonino – «Sta tutto lì, quando mi serve lo piglio» – perché sta per l’appunto al di fuori di te. Non è in te e – come dice il poeta – «Non fa scienza, / sanza lo ritenere, avere inteso». È inutile che capisci una cosa se poi non la ricordi: è come non l’avessi mai capita.
In secondo luogo, nel 1959 – quando uscì nelle sale il film Policarpo ufficiale di scrittura di Mario Soldati, con Renato Rascel che interpretava Policarpo – mancò poco che la gente facesse crollare i cinema dagli applausi. Nella scena madre, infatti, Rascel- Policarpo doveva dare finalmente prova – di fronte a una commissione ministeriale – dell’avvenuta riconversione da scrivano amanuense a dattilografo provetto. Assiso davanti a una mastodontica Olivetti nera d’epoca, annunciava quindi con voce stentorea: «S’ode a destra uno squillo di tromba!». Ed immediatamente dopo si chinava a pulsare sui tasti della Olivetti, che replicavano metallici: «Tatatì tatatì tatatìta!». Lui allora: «A sinistra risponde uno squillo!». E la macchina di nuovo: «Tatatì tatatì tatatìta!», mentre nei cinema scrosciavano gli applausi.
Erano i cinema degli anni Cinquanta, con le sale piene di folla, le nubi di fumo che salivano al soffitto e il ragazzetto che vendeva i bruscolini nel corridoio tra le sedie. E quegli applausi a scena aperta nel buio stavano a certificare il processo di identificazione di un intero popolo – nel personaggio e nella storia del film – attraverso il riconoscimento e la condivisione dei singoli versi e della loro ritmica (tipica, per inciso, del decasillabo anapestico, detto anche “manzoniano”).
Certo quella era ancora una scuola di classe, la scuola fascista ed antidemocratica di Gentile, fortemente selettiva. Era una scuola per i figli dei ricchi, mentre – per quelli del popolo – dopo le elementari c’era solo il cosiddetto avviamento e gambe in spalla a lavorare, amen. Era giusto e sacrosanto riformarla. Ma in alto – benedett’Iddio! – non in basso. Democrazia e socialismo sarebbe stato far salire tutti quanti ai massimi livelli culturali, non lasciare tutti somari. «Che razza de casino che semo combinato...» dice quel mio compagno cisternese: «Era in alto che mi dovevi eguagliare, non in basso, mannaggia a te».Hai tolto la storia, la geografia e le poesie, e l’unica memoria condivisa di cui sembrano disporre i giovani oggi è la sigla di Lady Oscar cantata da Cristina D’Avena ac similia. Come possono poi capire quello che leggono? Anzi, molto più dello studente su tre che non ce la fa, a me chi desta assoluta meraviglia sono invece gli altri due, quelli che pare capiscano: «Chissà come fanno?».
Più di 2150 anni fa, Catone il censore insegnava: « Rem tene, verba sequentur » che significa pressappoco che – se hai delle cose da dire – le parole poi vengono da sole. Se invece non hai niente da raccontare, è meglio che ti stai zitto che fai più bella figura. Questi purtroppo non sanno né chi sono né dove stanno; né soprattutto da dove vengono. La lingua però non è un fatto astratto: ogni nome corrisponde a una cosa o a un concetto. Come possono quindi – porebestie – dare i nomi e riconoscere le cose, se dentro la testa non le hanno? Credono davvero che il mondo inizi e finisca con loro. Hanno il vuoto identitario assoluto, nessuna consapevolezza del divenire storico e del faticoso dipanarsi delle generazioni, che pure è stato necessario per poter giungere appunto fino a loro. E la colpa è nostra, colpa di questa scuola. Fagli ristudiare la storia, la geografia, il latino e un po’ di poesie a memoria, finché sei in tempo. Dagli i materiali per costruirsi un’identità e una memoria collettiva.
Per doverosa completezza dell’informazione, è bene però precisare che ai nostri tempi, a scuola, se non studiavi ti menavano. Certe bacchettate sulle mani e schiaffoni a tutta forza in testa, mica solo alle elementari. Ancora in quinto geometri – nel 1968 – mia madre si presentava ogni volta, al ricevimento professori, a dirgli imperiosa: «Lo meni professo’, mi raccomando! Lo meni, se serve». Adesso invece pare siano i genitori, spesso, a menare i professori.
«Che vai cerchenno, allora?» dice quel mio compagno cisternese: «Poi ti fai meraviglia se questi, quando lèggeno, lèggeno lèggeno e ‘ncapìsceno ‘ncazzo? Dagli due zampate ai fianchi e vedrai che capìsceno». Io non lo so. Mia madre – fosse viva – due zampate ai fianchi le consiglierebbe forse pure, però, per i professori, presidi e ministri. Non solo quelli attuali, anche quelli di prima. Dal ’68 a oggi.