Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  luglio 17 Mercoledì calendario

Cinque ricette per il successo

Il successo è un pensiero costante nelle nostre vite. Non c’è nulla di male, poiché il successo è il modo in cui veniamo ricompensati dagli altri per ciò che facciamo e, a meno di essere degli eremiti, abbiamo bisogno di un riscontro sociale. Tuttavia, come scrive lo scienziato ungherese Albert-László Barabási nel suo ultimo libro: La formula. Le leggi universali del successo (Einaudi, 232 pagg., 26 euro), «nella maggior parte dei settori, non abbiamo gli strumenti di misura appropriati per le prestazioni umane, che si tratti di concorsi di violino, di competizioni di musica pop, di premi letterari, di scegliere il medico dell’anno». L’autore elenca una serie di studi che dimostrano la sua affermazione: concorsi enologici in cui gli “esperti” degustatori di vino giudicavano lo stesso vino in modi diversi a ripetuti assaggi, dando prima il massimo a un Pinot nero e poi giudicandolo «catrame sciolto dal caldo»; concorsi di pianoforte in cui a vincere il primo premio non era il pianista più geniale, ma quello più vistoso, più «calato nella parte», e quasi sempre quello che si esibiva né per primo (quando i giudici devono ancora scaldarsi) né per ultimo (quando sono bolliti dalla stanchezza) ma per quinto (il giusto mezzo, direbbe Aristotele); colloqui di lavoro in cui a essere assunti non sono i più qualificati, ma i candidati che mostrano un tatuaggio appariscente o una certa montatura di occhiali. In breve, dice Barabási formulando il principio fondamentale del suo saggio: «Il vostro successo non ha a che fare con voi e con le vostre prestazioni. Ha a che fare con noi e con il nostro modo di percepire le vostre prestazioni».

Il PRIMATO
Il successo, dunque, è diverso dall’appagamento o dalla soddisfazione individuale di aver scritto un certo libro, di aver ottenuto un certo risultato sportivo che ci eravamo prefissi, o perfino dal numero di aerei nemici abbattuti, come dimostra la storia di Manfred von Richthofen, il leggendario “Barone Rosso”. Dipende invece da come vengono percepite le nostre prestazioni, e se sono utili alla “rete” (cioè, al contesto sociale) che ci circonda. Il Barone Rosso non fu affatto il più micidiale aviatore della Prima guerra mondiale; il primato, in termini quantitativi, spetta al francese René Fonck con circa 100 abbattimenti. Ma chi si ricorda di Fonck? Il fatto è che «le prestazioni sono solo una variabile della formula del successo». E nel caso del Barone Rosso, più importante era creare il mito dell’asso dei cieli invincibile, del giovane nobile prussiano che aveva dipinto di rosso il suo aereo quasi a segnalare la sua impavidità. E che, morendo a soli 25 anni nel suo ultimo duello, entrò nella leggenda. Fonck, invece, ebbe la sfortuna di sopravvivere, di finire in acque torbide all’epoca dell’occupazione nazista della Francia, e di precipitare ingloriosamente durante un volo dimostrativo. O ancora, tutti ricordano Rosa Parks, la donna di colore che in Alabama, nel 1955, rifiutò di cedere il suo posto su un autobus a un bianco. Nessuno invece ha memoria di Claudette Colvin di 16 anni, che in quello stesso anno, nella stessa città di Montgomery dove avvenne il gran rifiuto della Parks, nove mesi prima, aveva allo stesso modo rifiutato di cedere il posto a un bianco. E allora perché la Parks è finita sugli scudi dei diritti civili, e la Colvin no? E ancora, perché tutti pensano che furono i fratelli Wright a inventare il primo aeroplano, quando il primo velivolo a motore fu realizzato nove mesi prima da un neozelandese di nome Richard Pearse?

LA FORMULA
Da tutto ciò, Barabási deduce che, se vogliamo avere successo, non basta esprimere coraggio, talento, genio, audacia, e il duro lavoro, ma dobbiamo anche «studiare la nostra comunità» al fine di «occupare un posto nella coscienza collettiva», e per far questo, nel nostro mondo interconnesso, bisogna in particolare «padroneggiare le reti», il che spiega perché non ci sia celebrità che non si dia un gran daffare sui social, come del resto tutti quanti. I grandi campioni dello sport non guadagnano tanto grazie ai premi sportivi, ma alle sponsorizzazioni legate al mito che la comunità ha creato intorno alle loro figure, mito che, una volta prodottosi, si libra altissimo indipendentemente dalla misurazione oggettiva delle loro prestazioni. Infatti, come dice Barabási formulando la sua “seconda legge del successo”, «le prestazioni sono limitate, ma il successo è illimitato». Usain Bolt, l’uomo più veloce del mondo, a un certo momento non potrà correre più veloce di quanto ha fatto. Un grande fisico, prodotta una scoperta di portata epocale, non riuscirà a superarsi. C’è un limite alle prestazioni umane. Ma Einstein continuò a vedere accrescere la sua fama molto dopo aver formulato le sue rivoluzionarie teorie scientifiche. Questo perché «il successo si autogenera» e la risposta collettiva alle sue prestazioni, dopo oltre un secolo, continua a diffondersi nelle reti sociali per «eventi del tutto disgiunti dai suoi contributi alla scienza». La mancanza di successo, in molti casi dunque, non è un problema nostro, ma degli altri.