La Stampa, 17 luglio 2019
Perché la Cina rallenta
«Non sono stupido, sono molto intelligente». Così ama dire Donald Trump di se stesso, scatenando puntualmente lo scherno di avversari, intellettuali e social media. Ma un’occhiata ad un paio di numeri economici sembra dare ragione al presidente americano.
Prova numero uno sono i dati usciti in Cina questa settimana: la locomotiva asiatica è cresciuta di «solo» il 6.2% tra aprile e giugno, il passo più lento in 27 anni.
Prova numero due è un altro record: alla fine di luglio, l’economia americana sarà cresciuta per 121 mesi consecutivi, il periodo più lungo dal 1854, quando gli statistici hanno cominciato a misurare la produzione di beni e servizi made in Usa.
Solo Donald avrebbe l’arroganza di prendersi il merito totale per entrambe le prestazioni, ma al borioso Cesare americano va dato quel che è di Cesare.
La decelerazione cinese è quasi interamente dovuta alla guerra commerciale tra Pechino e Washington istigata da Trump l’anno scorso. Le esportazioni – il motore più importante del miracolo economico cinese – hanno smesso di crescere e potrebbero incominciare a ridursi, soprattutto se gli Stati Uniti impongono le sanzioni aggiuntive minacciate da Trump a maggio.
Alcune società – da Google a Nintendo – hanno già annunciato che sposteranno stabilimenti dalla Cina ad altri paesi. Persino Foxconn, il partner-chiave di Apple, è stata costretta a rassicurare i mercati dicendo che, se necessario, potrebbe fabbricare tutti gli iPhone fuori dalla Cina. Anche i capitani d’industria che per ora rimangono si dicono preoccupati di uno «sconto-Cina» – costi aggiuntivi causati dal rischio di caos geopolitico.
Il problema per Pechino è che, nonostante decenni passati a stimolare la domanda interna, l’economia rimane ultra-dipendente dalle esportazioni. I numeri di questa settimana hanno dimostrato che le società, i consumatori e il governo cinese la propria parte l’hanno fatta – investimenti, vendite al dettaglio e spese sulle infrastrutture sono in crescita – ma ciò non basta a controbilanciare lo scivolo nelle esportazioni.
Negli Usa Trump ha meno di cui gloriarsi. L’incremento record dell’economia americana è dovuto a fattori ciclici – il tonfo enorme dopo la crisi del 2008 ha portato ad un’espansione più lunga del previsto – e strutturali – l’America è più efficiente perché non sforna più prodotti manufatturieri ma servizi; e l’inflazione salariale è tenuta a bada dalla globalizzazione.
Ma il presidente americano ci ha messo del suo. I tagli delle tasse per i ricchi e gli attacchi maleducati contro la Federal Reserve, l’indipendente banca centrale Usa, non sono stati molto «presidenziali» ma un effetto positivo sull’economia lo hanno avuto.
Fino ad ora, però, la strada è stata in discesa. È naturale per un palazzinaro aggressivo e istintivo come Trump guadagnare tempo e terreno con mosse inaspettate, spericolate e appariscenti. La parte difficile, per lui e l’amministrazione, è mantenere questo vantaggio quando la situazione diventa complessa, sfumata e ad alto rischio.
Partiamo dalla Cina. Se il presidente Xi Jinping vuole chiamare il bluff di Trump e non fa concessioni, gli Usa dovranno imporre tariffe che faranno male anche a società e consumatori americani, per non parlare dei mercati.
La globalizzazione delle filiere produttive fa sì che una guerra commerciale con la Cina rischierebbe di ferire le multinazionali Usa che producono beni a basso costo in Asia per rivenderli ai consumatori occidentali. E non dimentichiamoci che Pechino possiede miliardi e miliardi di beni del Tesoro americani. Se ne vendesse anche una frazione, il costo del vasto debito dello «zio Sam» potrebbe salire alle stelle.
Trump non può nemmeno dormire sonni tranquilli sul fronte domestico. A dirla con l’Economist: «La Storia suggerisce che ci sarà una recessione molto presto». E a provocarla potrebbe essere proprio il conflitto economico con la Cina. O magari una più «tradizionale» indigestione di debito da parte di aziende e consumatori (siamo già al 250% del Pil, quindi...).
Trump ama vantare il proprio intelletto, ma si dovrebbe ricordare del vecchio adagio degli investitori di Wall Street: «Better lucky than smart» – meglio essere fortunati che intelligenti. —
*Direttore di Barron’s Group in Europa. francesco.guerrera@dowjones.com
Twitter:@guerreraf72