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 2019  luglio 17 Mercoledì calendario

Intervista a Giulio Ciccone

Eccolo qui, Giulio Ciccone. A un tavolino dell’hotel Mercure, nessun giornalista nei paraggi perché non è più maglia gialla e nemmeno maglia bianca, come si dice non fa più notizia. Invece sì, per me almeno, e ho il presentimento che in questo Tour non abbiamo finito di parlarne, bene, e neanche più in là, non dico in questa stagione ma nelle prossime due. Come molti rettili, i gechi non so, il ragazzo sta cambiando pelle. Non è un campione e lo sa, l’umiltà non gli manca. È, come si dice in gergo, un bel cavallino che scalpita. Ha un bel presente e il futuro dipende soprattutto da lui. «Devo migliorare in salita, non ho ancora il passo degli altri, e crescere a cronometro».
Alla crono bolognese, che ha aperto il Giro, ha fatto il miglior tempo assoluto in salita e il peggiore in pianura.
«Non era casuale. I risultati migliori li ho ottenuti da scalatore e con fughe da lontano. Come qui, quando ho preso la maglia gialla».
I primi dieci giorni in una parola?
«Inaspettati. Il Tour non era nel mio calendario, ma sotto sotto speravo di venirci. Vista la mia condizione di forma, me l’hanno proposto a metà Giro e ho accettato con entusiasmo.
Condizioni chiare: fare esperienza e dare una mano al capitano, Porte. Quelle erano e restano, questo cercherò di fare. Va da sé che i giorni in giallo sono una sorpresa enorme. Pochi, ma me li sono goduti: gli applausi della gente, anche se non sono francese, il sentirsi chiamare per nome, il maggior rispetto degli altri corridori. Chiunque la porti, la maglia gialla è un simbolo».
Cos’ha comportato il passaggio da una squadra piccola, senza offesa, come la Bardiani, alla Trek-Segafredo?
«Il cambiamento di molte cose, dalla mentalità alla posizione in bici, in base a uno studio specifico. Prima era fondamentale l’allenamento, tra una cosa e l’altra poteva passare un mese. Adesso ho più giorni di gare e meno di preparazione».
Tra come si corre al Giro e come si corre al Tour ha notato differenze?
«Una, per ora. Qui si corrono i primi dieci chilometri della tappa con l’intensità degli ultimi dieci al Giro. Bisogna avere cento occhi, qui: la tensione è più forte, a ogni svolta può succedere qualcosa di grosso, come i ventagli verso Albi. Di questa differenza avevo sentito parlare altri corridori più esperti, ma un conto è sentirne parlare, un altro starci dentro».
Oggi volatona, poi tre giorni sui Pirenei intervallati dalla crono di Pau. Ha un piano?
«Vivere alla giornata rispettando le consegne. In salita dare una mano a Porte. Questo significa non curare la mia classifica e non correre per la maglia a pois. Mi piacerebbe vincere una tappa, ma prima devo uscire dalla classifica. E poi si vedrà. Chi sa quali sono i miei limiti? Nessuno, nemmeno io. Sono qui per capire anche questo: come reagisce il mio fisico sui Pirenei, quale sarà il mio stato di freschezza nella terza settimana di corsa».
Luca Guercilena, il boss della Trek-Segafredo, dice che lei è venuto per imparare, ma sta imparando molto più in fretta del previsto.
«Mi fa piacere, ma ho ancora molto da imparare. Correndo a fianco di certi campioni veri s’impara più alla svelta. Qui, a parte la forza collettivadell’Ineos, ma si sapeva, mi ha impressionato Alaphilippe. Che numeri. Ecco, quando parlo di vivere alla giornata intendo non pianificare troppo, ma saper saltare, così a istinto, sul treno che passa».
Ho letto che il suo idolo era Purito Rodriguez.
«Per come scattava in salita sì. Sono cresciuto in una famiglia di pantaniani, ma quando lui dominava in salita ero un bambinetto. Mi sono entusiasmato per Contador, per Nibali».
Ho letto anche che ha rischiato di schiantarsi contro un muro, alla prima corsa.
«Sì, a Manoppello. Avevo otto anni. In una curva a destra sono andato dritto, passando tra un muro e un palo della luce».
E quanto ha aspettato prima di vincere una corsa?
«Nove anni».
Non ci credo. Uno che non vince nulla per nove anni smette prima, o lo fanno smettere i genitori.
«I miei mi hanno sempre incoraggiato, a loro bastava che finissi gli studi e li ho accontentati: sono geometra. Di piazzamenti, anche secondi posti, ne ho collezionati tanti. Ero bassino, mi chiamavano il Folletto. Sono cresciuto con un po’ di ritardo e ho cominciato a vincere quando mi sono trasferito a Bergamo. La strada di Nibali, di Aru. C’è poco da fare, per diventare bravi corridori bisogno andare al nord».
Cosa le manca dell’Italia?
«Un bel piatto di arrosticini. Ma appena torno mi rifaccio».
Infine, il Picchio. Dopo Geco, ci può stare nel suo zoo personale?
«A me va bene, meglio essere un uccello che un rettile. E poi c’è tempo per trovarne altri».
Mi sono portato avanti, ma non glielo dico. Il cognome si presta. Se abbatte gli avversari, Giulio Piccone. Se li manda all’aria, Giulio Ciclone. Ma è vero che c’è tempo. E anch’io vivo alla giornata, e aspetto».