la Repubblica, 17 luglio 2019
Francesco Malacarne, il nuovo papà della fotografia
Se l’ingegner Malacarne fosse stato un po’ più audace, oggi scatteremmo “papirografie”. Bastava poco, un guizzo di fantasia, e la fotografia, l’invenzione che ha cambiato la storia, sarebbe nata italiana. Purtroppo quell’oscuro, ingegnoso ingegnere della Serenissima non l’ebbe e ne inventò solo metà. Ma la scoperta è comunque sorprendente, e risarcisce il nostro Paese da una vergogna storica, quella di non aver partecipato allo sforzo planetario che agli inizi dell’Ottocento coinvolse decine di scienziati, inventori, artisti, annoiati aristocratici e incalliti praticoni nella ricerca di un modo di fabbricare immagini che facesse a meno dell’abilità della mano umana. Nell’elenco dei pretendenti al primato, comunemente assegnato ai francesi Nièpce e Daguerre e all’inglese Talbot, figurano sette francesi, sei inglesi, sei tedeschi, un americano, uno spagnolo, uno svizzero e un brasiliano. Nostrani, finora neanche uno. Bene, finalmente possiamo aggiungere un nome italiano alla lista: Francesco Malacarne, figlio di proprietari terrieri di Riva del Garda, “ingegnere ordinario di prima classe” a Verona e poi a Venezia. Che attorno al 1809-10 inventò un modo per riprodurre disegni e stampe su un supporto di carta, attraverso l’azione della luce su una emulsione fotosensibile.
Ci sono le prove: chiamata a riordinarne l’archivio, Anna Bedon, docente di storia dell’architettura allo Iuav veneziano, ha scoperto fra le carte di Malacarne appunti che parlano di “esperimenti papirografici” ottenuti attraverso “impressioni chimiche”. Stampe “papirografiche” di Malacarne erano conosciute, sono conservate a Venezia, Verona e a Parigi, ma finora sbrigativamente considerate varianti tecniche della litografia. L’accenno alla foto-chimica cambiava tutto. Bedon chiamò subito in soccorso il sapere di un grande esperto: Italo Zannier, pioniere degli studi fotografici (fu il primo docente di fotografia nelle università italiane). Che a ottantasette anni ha trovato quel che aveva sempre sperato di trovare: le tracce di un inventore italiano dello “specchio dotato di memoria”. Racconta che «aprire il cartoccio intestato divertimenti eliografici nel Museo di storia naturale di Venezia è stata un’emozione indescrivibile», e gli si può credere. Che cosa fece dunque l’ignoto pioniere Malacarne? Proprio come avrebbe fatto, qualche anno dopo, Nicéphore Nièpce con quella che finora era considerata la prima stampa di tipo fotografico della storia (la riproduzione di un ritratto del cardinale D’Amboise), prese alcune incisioni su carta, le bagnò per renderle traslucide, le appoggiò su un altro foglio di carta che aveva ricoperto di una sostanza sensibile alla luce, premette tutto sotto un vetro pulito ed espose il suo sandwich al sole per alcune ore. Quando pelò via la stampa originale, una copia era rimasta impressa sull’altro foglio, che poteva essere usato come matrice inchiostrabile, proprio come quelle di pietra della litografia, ma molto meno costosa. Soddisfatto, la chiamò così, papirografia.
Certo, somiglia più alle fotocopie che alla fotografia. Del resto Malacarne, come Nièpce (e come molti altri inventori della fotografia) voleva solo migliorare la litografia (altra invenzione capitale della società delle immagini, nata pochi decenni prima): sostituendo al disegno manuale sulla matrice un procedimento automatico e riproducibile, come era nello spirito del secolo industriale. Quale fosse la formula chimica, ahinoi, Malacarne non lo ha lasciato scritto. Nel libro che assieme a Bedon ha dedicato alla scoperta ( Francesco Malacarne pioniere della fotografia, edizioni Quinlan), Zannier ipotizza si trattasse di «un miscuglio di sostanze organiche, gelatina, gomma arabica, albumina, mescolate a un bicromato come quello di potassio, efficacemente fotosensibile».
Mancava dunque solo un passo perché la fotografia, per quello che intendiamo con questa parola, nascesse in Laguna. Piccolo ma decisivo: l’idea di mettere quel foglio di “carta-pietra” sensibilizzato sul fondo di una camera obscura, ausilio noto da secoli ai disegnatori (al Canaletto, ad esempio), perché fissasse le immagini proiettate dalla lente. Le immagini del mondo reale. Il colpo di genio che ebbero Nièpce, Talbot, Daguerre e forse altri. Ahinoi, Malacarne si fermò prima. Salvo poi, quando nel gennaio del 1839 da Parigi arrivò la notizia della “meravigliosa invenzione” di Daguerre, dedicarsi subito al nuovo procedimento senza rammaricarsi troppo per l’occasione perduta. E anche qui fece cose da pioniere: nel 1844, primo al mondo, ottenne le fotografie di una zanzara e di una pulce al microscopio solare. «Non era un divertissement », lo elogia Zannier, «quegli insetti erano responsabili delle epidemie più devastanti dell’epoca, la peste e la malaria, con la fotografia si potevano studiare». Il consapevole Malacarne capì che la fotografia non era un giocattolo, ma uno strumento capace di fare del bene all’umanità.
Abbiamo comunque un primato: debuttò in Italia metà della fotografia, la parte dell’impressione fotosensibile. Ma l’occasione d’oro dell’ en plein, la raccolta delle immagini dal vero, ci fuggì. Il “bruciante desiderio” della fotografia aveva colpito anche le menti italiane, che però non seppero arrivare al dunque. Che smacco per il paese di Leonardo da Vinci, accreditato fra mille altre cose anche dell’invenzione della camera obscura. Quante volte i nostri storici provarono a rimediare, cercando almeno uno straccio di precursore. Il cinquecentesco Giambattista Della Porta, ad esempio: ma trafficò solo con lenti e specchi. O il secentesco Marco Antonio Cellio, che proprio Zannier sperò di aver scoperto, per poi arrendersi all’evidenza: i suoi disegni erano solo ricalcati su una specie di camera lucida, come facevano tanti altri artisti, e al massimo giocherellò un po’ col fosforo, ma senza produrre immagini. Bene, con Malacarne almeno salviamo un po’ dell’onore nazionale. Ma la sua sarebbe stata una invenzione “italiana”? Nella prima metà dell’Ottocento l’Italia era ancora l’"espressione geografica” che Metternich sbeffeggiava, un mosaico di Stati e una ragnatela di frontiere che ostacolavano anche il libero flusso delle idee. Menti geniali ce n’erano: a Modena, ad esempio, Giovanni Battista Amici era un luminare europeo su lenti e microscopi (a lui Talbot mandò i suoi primi disegni fotogenici). Forse, in un paese più unito e permeabile, un dialogo fra scienziati avrebbe potuto evitare che anche nella storia della fotografia questo Paese confermasse quello che Giulio Bollati definì, amaramente, il cronico "ritardo italiano”.