Corriere della Sera, 17 luglio 2019
L’arte di falsificare l’arte
Rinascimento. Si narra che nel 1496 il ventunenne Michelangelo abbia scolpito a Firenze un Cupido dormiente e lo abbia sotterrato nella vigna per dargli una patina e farlo passare come un’opera dell’antichità greco-romana. Un mercante vende la scultura al cardinale Raffaele Riario, il quale, scoperto l’imbroglio, chiama a Roma il giovane Buonarroti: «È un genio». Nel Cinquecento, in Spagna, si imitano «mostri e visioni ultraterrene» dell’olandese Hieronymus Bosch (El Bosco). Per dar loro «un aspetto genuino e antico», i dipinti vengono affumicati nei camini.
Amsterdam, 1945. Finita l’occupazione tedesca, Han van Meegeren – affascinato dalla pittura olandese del Seicento – è accusato di collaborazionismo per avere venduto al feldmaresciallo Hermann Göring il dipinto Maria Maddalena che lava i piedi di Cristo di Jan Vermeer. L’artista rischia l’impiccagione, così è costretto a svelare il proprio segreto: ha dipinto lui il quadro, così come altri Vermeer che si trovano nei musei del suo Paese, fra cui Discepoli a Emmaus e L’ultima cena. Nessuno gli crede finché, in carcere, non ne rifà uno dinanzi a testimoni.
Episodi, questi, riportati in Falsari illustri (Skira, pp. 120, e 19) di Harry Bellet (Rouen, 1960, qui sotto): una carrellata nel mondo dell’arte e, naturalmente, dei falsi che ne fanno parte integrante. Il fenomeno non risparmia i musei. Anzi: soprattutto quelli americani. «Quando Thomas Hoving, ex direttore del Metropolitan di New York, dichiarò nel 1997 che il 40% delle opere del museo erano false – scrive Bellet – pensammo a un’esagerazione. Di fatto, ci si domanda invece se la cifra non sia inferiore alla verità». Da qui imbrogli, episodi divertenti, comunque segni di genialità. Certo oggi, con le moderne tecniche, è meno difficile individuarli; ma queste aiutano anche i falsari. Citiamo, per esempio, lo stesso Han van Meegeren. Dato che la pittura a olio «impiega una settimana ad asciugare, a volte mesi per certi pigmenti», occorreva cuocere il dipinto per farlo diventare duro come smalto. Ma alla giusta temperatura, precisa Bellet. Se troppo alta, il forno avrebbe potuto alterare i colori e Van Meegeren, come i seguaci della nouvelle cuisine, scopre le virtù della cucina a fuoco lento: 105 gradi per due ore. Si falsificano sculture, dipinti, disegni preparatori. Persino schede e fotografie, che accompagnano le opere, negli archivi dei musei. O si va alla ricerca di certificazioni in ambiti diversi. Valga per tutti l’esempio della dogana Usa, dove, dopo la morte di Corot (1875) s’importano ben 27 mila quadri (contro i 3 mila dipinti dall’artista francese).
Una nota merita il rapporto giustizia-falsari. A parte il Medioevo, quando il falsario viene bollito vivo, nei secoli successivi egli talvolta gode di una certa simpatia. Luca Giordano crea nel Seicento un falso Dürer? I giudici l’assolvono: «Dipinge bene come l’artista tedesco».
Tra i falsari ci sono anche pittori mancati. Ricordo un gallerista veneziano-milanese che d’estate si trasferiva nella città dei dogi. Nel suo ufficio, in galleria, amava fare piccoli disegni nel tiretto della scrivania che chiudeva veloce se entrava qualcuno. Firmati Twombly, De Pisis e Tancredi, li vendeva, già montati, a turisti, per poche migliaia di lire. Famosa la battuta del suo amico corniciaio in Laguna, cui aveva appena consegnato tre disegni su fogli in cui, si poteva leggere in trasparenza Carta Fabriano 90: «Cambia album, almeno». Per Twombly il 90 reggeva (se ne andrà nel 2011) ma De Pisis era già morto nel ’56 e Tancredi nel ’64.