il Fatto Quotidiano, 16 luglio 2019
Trent’anni senza Herbert von Karajan
Herbert von Karajan morì nella sua casa di Anif, presso Salisburgo, la mattina del 16 luglio 1989. Quel giorno avrebbe dovuto dirigere la prova generale di Un ballo in maschera, lo spettacolo inaugurale del Festival che egli, dopo la guerra, aveva rifondato e presieduto. Affiancandovi poi una sua creazione, il Festival di Pentecoste, dedicato a delle rarità che venivano presentate in forma di primizia. Il Festival s’inaugurò regolarmente, e l’Opera di Verdi venne diretta da Georg Solti. Trovai sorprendente e scandaloso che la recita non venisse dedicata alla sua memoria. Poi, a Salisburgo, il Maestro è stato commemorato nel modo più degno da Riccardo Muti, che non ha dimenticato il suo debito di gratitudine verso chi, solo per averne ascoltato alcune esecuzioni, lo aveva invitato telefonandogli direttamente, senza conoscerlo. Muti diresse in memoria di Karajan una splendida Messa da Requiem di Verdi e un ancor più splendido Requiem tedesco di Brahms.
Quando si nomina Karajan, uno dei più grandi direttori d’orchestra di tutti i tempi, una sorta di riflesso condizionato porta ad associarlo a Beethoven, a Wagner, a Brahms, a Strauss; e a Bach, a Mozart, a Haydn, a Schönberg, Berg e Webern, ch’egli da ultimo, con Mahler, ha eseguito in modo rivelatore. L’interprete verdiano è di primissima grandezza. La Messa da Requiem e l’Aida da lui dirette non hanno trovato mai un paragone possibile. Vi è una lontana Traviata della Scala, del 1964, la più struggente di tutte. Un Trovatore di Vienna. Meno bene ha fatto egli il Don Carlos: in quattro atti (ch’è una versione facilitata rispetto a quella autentica in cinque, scaturita dalla disperazione di Verdi che vedeva il suo capolavoro massacrato dai tagli), e con troppi tagli, ancora. E il Falstaff: dove allo splendore sinfonico egli unisce un’acquiescenza verso gli arbitrî di Tito Gobbi che ha una sola spiegazione: il disprezzo dei tedeschi verso la cultura italiana. Se avessero toccato una croma del Fidelio o del Crepuscolo degli dei avrebbe fatto l’inferno. In Verdi, che pure egli ha capito più di ogni altro connazionale, indulgenza.
Ho detto “uno dei più grandi direttori” e non “il” più grande direttore di tutti i tempi: come molti non illegittimamente affermano. I più grandi sono stati Giuseppe Martucci e Gino Marinuzzi; poi, non dimenticando noi Toscanini, dobbiamo menzionare almeno Fritz Reiner, che di Karajan non è stato meno grande. Resta che il ruolo sociale e pubblico del direttore d’orchestra, oggi ridottosi quasi a quello di macchietta, è stato rivoluzionato nel Novecento da Karajan. Il non essersi compreso il senso di tale rivoluzione è la principale fonte di equivoci sul Maestro. Egli è accusato di essere una star massmediale, di essere un gelido produttore di dischi, di aver sottoposto la musica alle esigenze discografiche, di essere un uomo spietato e senza scrupoli.
Incominciamo dalla fine. Non l’ho conosciuto di persona. Ho raccolto sufficienti testimonianze sulla sua generosità e sulla sua gentilezza. Basta guardare il filmato della Missa solemnis di Beethoven con i Filarmonici di Vienna e cogliere il sorriso di squisita gratitudine che rivolge al primo violino dopo l’“a solo” del Benedictus per comprendere l’uomo. Un altro particolare mi colpisce. A Salisburgo un ascensore privato collegava il suo camerino al garage aziendale del Festival. Finita ogni recita, egli dal camerino scendeva direttamente in garage e dopo un quarto d’ora era davanti alla sua minestrina di verdura a casa. Di complimenti, abbracci, autografi, se ne fotteva. E sì che gli spettavano: era diventato anche regista – e di prima sfera – essendosi troppo infastidito delle violazioni del testo che venivano attuate nei confronti dei capolavori. Si liberò persino di Strehler – ed ebbe ragione – dopo le superfetazioni che il grande regista aveva fatte al Flauto magico di Mozart.
Veniamo al disco. Gli si contrappone, quale opposto modello, la “purezza” di Furtwängler, che Adorno aveva soprannominato “il custode della Musica”.
Karajan ai suoi tempi ha inciso più di chiunque altro. Ma le sue incisioni sono, sempre e comunque, modelli di profondità interpretativa: è colpa sua se egli è stato capace di splendori di timbro e fraseggio che nessuno aveva prima di lui scoperti? In realtà, il rapporto di Karajan con la riproduzione tecnica della musica ha qualcosa di faustiano: nel senso ch’egli è stato il solo a scoprire quale sfida la tecnica della modernità alla musica ponesse. Tale sfida della tecnica egli, unico, ha affrontato, e vittoriosamente. Il problema posto da Heidegger. Se n’è accorto qualcuno?