il Giornale, 16 luglio 2019
Lunga intervista a Enzo Bosso
L’incontro avviene in un hotel del centro di Bologna. Ezio Bosso, 47 anni, arriva tra gli applausi, circondato dalle attenzioni dei suoi collaboratori. Di tutti. La malattia lo costringe su una sedia a rotelle (nel 2011 ha subito un intervento per una neoplasia ed è stato anche colpito da una patologia neurodegenerativa) ma ha un’inesauribile passione, lucidità, determinazione da vendere. Finissimo musicista, prima della conferenza sul suo debutto all’Opera Festival 2019 dell’Arena di Verona, dove l’11 agosto dirigerà «Carmina Burana» di Carl Orff, il maestro ha accettato di parlare di sé, dei suoi ricordi, della sua esistenza.
Ezio Bosso, lei è visto come qualcuno che porta la forza della musica nella società.
«Tutti noi portiamo qualcosa. Nella musica ci credo profondamente. Non mi sembra di fare qualcosa di particolare ma semplicemente onorare un principio naturale come quello che la musica è una necessità».
Alto messaggio quindi: non montarsi mai la testa.
«In tutte le cose ognuno porta il suo bagaglio, se stesso, la propria ricerca. Lo fa ogni direttore, ogni compositore, tutti quelli che hanno qualcosa da dire».
La sua particolarità?
«Non saprei dire veramente ma ci provo. Forse la mia particolarità è quella di lottare. Lotto ogni giorno affinché la musica sia il patrimonio collettivo e non soltanto di pochi».
In tutto questo quanto contano emotività ed empatia?
«Trovo che la parola empatia, anche se mi appartiene, sia abusata. Comunque, la musica è per natura empatica; prevede che chi ascolta e chi parla diventino lo stesso oggetto».
Quanta comunione e gentilezza.
«Sono per una gentilezza militante, mi piace ripetere che i sorrisi avvicinano più dei passi e aprono più porte delle chiavi. Tutti dovremmo metterci in gioco per creare un movimento di disponibilità».
Come si fa?
«Ho avuto questa occasione, questo l’ho sperimentato, ho dovuto re-imparare a sorridere. Ma attenzione: sorridere ed essere gentile è una realtà che non deve diventare banalità. Sorrisi e gentilezza portano più avanti di qualsiasi altra cosa».
Si impara pure dall’infanzia.
«Certo, l’educazione conta, ma sono cose da coltivare sempre».
A proposito di anni verdi, che aria si respirava a casa sua?
«Posso dire che per quanto riguarda la musica non c’era neppure a casa mia. I miei genitori non erano così interessati. È stato mio fratello a spingermi in questa direzione».
Quando è stata la sua prima volta?
«È come chiedermi quando ho incontrato le mie cellule o la mia anima. Nella mia memoria la musica c’è sempre stata».
In gioventù?
«I miei genitori, Bruna e Angelo, erano operai. Mio padre faceva il tranviere all’Atm (Azienda trasporti municipali di Torino, ndr). Erano due idealisti ma vivevano il complesso del noi poveri non abbiamo diritto a nulla».
Pesante da sopportare?
«Un giorno dissero a mio padre proprio rispetto a me il figlio di un operaio può fare solo l’operaio e in qualche modo questa mentalità deprimente li ha segnati, ma ci hanno lasciato la lettura».
Bel viaggio da percorrere no?
«Per loro leggere era molto importante, era liberatorio. Però in qualche modo hanno patito tutta la vita».
Ma lei ha rotto lo schema.
«Probabilmente ero un ribelle. A 14 anni suonavo già in orchestra, a 16 sono andato via di casa, riuscendo anche a mantenermi da solo e ad aiutare i miei da subito, suonando».
Prosegua...
«Per quanto volessi fare il direttore e continuare il pianoforte, i miei mi chiesero di scegliere uno strumento poco frequentato per avere più opportunità di lavoro».
E cosa scelse?
«Dopo una parentesi nei fiati, che però non potevo affrontare per via dell’asma, passai al contrabbasso. Era fondamentale trovare lavoro bene e in fretta per dare una mano a casa».
I suoi?
«Erano felici ma sicuramente preoccupati a causa delle mie scelte».
Avrà fatto cose da ragazzo «normale»?
«Ferie poche, perché non ce le potevamo permettere. Il mio massimo, parlando di vacanze, era andare in campagna, vicino a Torino a studiare. Studiavo sempre».
Sono mancate delle cose?
«Sì, tante cose, ma anche no. La musica ha pure questo effetto di riempire i vuoti. Poi ci sono state e ci sono le amicizie, in alcuni casi orchestrali che sono con me dopo trent’anni».
Un aneddoto che la fa ancora sorridere?
«Il mio migliore amico, Fabio, è mio fratello, più grande. Una volta mi fece ubriacare così tanto che non riuscii neppure ad aprire la porta di casa. Mi addormentai sullo zerbino, avevo 15 anni».
Storie, storielle d’amore?
«Mi sono sempre innamorato follemente, già dall’età di due o tre anni. Mi ricordo di una bambina bionda che si chiamava Cristina. Di quel periodo ho ancora la foto con la mia maglietta preferita con un pesce sopra. Le volevo sempre tenere la mano».
Insomma, un Don Giovanni?
«Poi mi sono innamorato di una ragazza molto più grande di me, io avevo 5 anni, lei 15. La guardavo e la guardavo ancora, non dicevo niente; sono sempre stato timido».
Oltre alle «sbandate» giovanili, quali altre passioni?
«Da ragazzo scrivevo tantissimo. Scrivevo soprattutto poesie. Fino a una certa età il mio ideale era regalare una storia alle persone che amavo».
Ha mai pubblicato qualcosa?
«No. In realtà ho disimparato. Ora quando mi chiedono di fare un libro rispondo quando imparerò a scrivere».
Poi la vita è cambiata.
«Sì, ma all’inizio non me ne sono accorto o quasi. A un certo punto i medici mi hanno detto che ero malato».
La sua reazione?
«Ho risposto che dovevo fare ancora molte cose, una tournée, e sono partito per l’Australia due mesi, alla faccia dei dottori (ride divertito, ndr). Ma al ritorno ho cominciato a stare sempre peggio».
E ha dovuto affrontare un percorso difficile.
«La mia preoccupazione è sempre stata il dolore nello sguardo delle persone che mi amano. Per il resto ho accettato».
Chi sono le persone che l’hanno aiutata?
«Sicuramente Anna Maria che è stata compagna per 14 anni e che oggi è ancora la mia assistente e famiglia, ed è intoccabile. Poi mio fratello, e Relja Lukic, un altro pezzo di famiglia. E ancora penso al violoncellista Mario Brunello, il violinista Giacomo Agazzini con cui sono cresciuto. Che mi ha insegnato tanto e che c’era nel momento di buio. Ma in realtà sono tanti e spiace non poterli nominare tutti».
Un bel sostegno.
«Mi considero un uomo fortunato, se vogliamo più alla Nietzsche. Diceva: Che se non ti senti abbastanza fortunato, cerca la fortuna da un’altra parte».
A un certo punto la notorietà, grazie alla serata a Sanremo: come l’ha presa?
«Dopo quella serata sono partito per la Lituania e non sapevo che cosa accadesse. Ho pensato che tutto quel successo era anche una bella responsabilità».
Quindi?
«Ho sempre portato avanti la mia linea come prima, difendendomi, tra l’altro per non diventare un fenomeno da baraccone».
Ci vuole forza d’animo.
«Tutto questo è anche un po’ capitato. Tre giorni prima non ci volevo neppure andare a Sanremo. Non era il mio ambiente e difatti non ci sono tornato».
Insomma, non si è montato la testa quella sera?
«Macché, la vita è proseguita come prima, continuo ad andare negli stessi bar a Torino e a Bologna. Non ho nulla di questa ossessione tutta italiana del vip».
Perché tutta italiana?
«Voglio dire che certe cose non mi toccano. Vivo a Londra da tanti anni, un posto dove anche i ministri prendono la metropolitana».
Che cosa la tocca?
«Sento la responsabilità di avere l’occasione di dare accesso, di aiutare a vivere la musica classica a tante persone».
Allora chissà quanti progetti e sogni...
«Il mio sogno è far crescere sempre di più la mia orchestra, trovare una casa dove stare, per questo trovare i fondi necessari, e portare avanti questo progetto. Anzi, questo è proprio un appello».
Che tipo di orchestra?
«Un complesso come esempio di una società migliore, una comunità di ascoltatori con o senza strumento in mano che vivono anche i momenti di convivialità e la serietà dello studio».
Un’unione di persone tra arte e amicizia...
«Sì, proprio così. Amicizie storiche e nuove grazie alla musica. Eterogenee nell’età e nei mestieri. Dalla scrittrice al muratore all’avvocato, al professore di Diritto canonico, al tubista. Affetto, insomma. È bello stare con gli amici».
Vi trovate ogni tanto?
«Principalmente a casa mia e cucino per tutti. La mia cucina è un po’ nonnesca, diciamo tradizionale, regionale; da quella delle mie origini a quella bolognese a quella del Sud. Tra gli ingredienti uso anche tanta ’Nduja calabrese».
Creativo anche in cucina.
«L’altra sera per i miei ospiti ho fatto la tartare di pesci misti, l’ho inventata. Mi piace far stare bene le persone».
Ci vuole qualità.
«Ovviamente, ma anche quantità. Cucino per il doppio delle persone, perché credo che mi abbiano trasmesso il complesso di quello uscito dalla guerra, magari chissà, dopo arriva qualcuno che ha bisogno».
Si mangia e si chiacchiera, poi?
«Poi si suona, a volte viene un gruppo d’archi. A volte vengono a sentire i vicini di casa. La mia porta è sempre aperta».
Fan pure in casa, e i vip?
«So di essere apprezzato da alcuni ex giocatori della Juventus. Massimo Mauro mi ha detto che gli piacevo, pure David Trezeguet che ogni tanto vedo. E pensare che sono di provenienza granata».
Nel 2014 ha ricevuto la cittadinanza onoraria dal Comune di Gualtieri, Reggio Emilia, per la sua vicinanza al teatro.
«La musica aiuta. Ho suonato mentre la terra tremava per rassicurare le persone».
Chissà che paura...
«Dovevamo fare il concerto in teatro ma evidentemente non si poteva così lo abbiamo fatto fuori. C’erano persone che dicevano: chi sono questi pazzi.... Noi restavamo per dare un po’ di pace».
Quanti concerti e impegni: dove trova il tempo per scrivere musica?
«Scrivere prima per me era facile, ma ora... Sono cambiate molte cose. Poi sono sempre stato un direttore che scriveva musica e non il contrario».
Titoli da ricordare?
«È come chiedere a che figlio vuoi più bene. Ma per fare un esempio c’è il Gagarin string quartet, un pezzo dedicato a un quadro. L’astronauta sovietico Gagarin, il primo uomo nello spazio, era un mio mito da bambino. Avevo anche le sue figurine».
Ultime battute del suo spartito, a raffica: che cosa fa nel tempo libero?
«Leggo tanto, guardo un mucchio di serie tv, come The black list e Supernatural. Guardo tanti film».
La pellicola cult?
«Uno dei miei culti è un film della fine degli anni Cinquanta, di Billy Wilder, A qualcuno piace caldo».
Ezio e la fede.
«Sono diversamente credente. La fede la rispetto profondamente».
Ezio e la politica.
«Credo nella responsabilità dell’individuo, ognuno deve crescere se stesso e deve aiutare gli altri. Per me la politica esiste solo nella polis. Poi non confondiamo la politica con le tifoserie. La polis permette a tutti di esistere».
Incontri fondamentali?
«Oltre ad Anna Maria Gallizio, il direttore Claudio Abbado. Poi capita di incontrare uomini straordinari meno noti. Ne ho incontrati che non avevano neppure un nome. E che mi hanno aiutato tanto».