la Repubblica, 16 luglio 2019
Montale, la parola ai falsari
Vi aspettereste un oltranzista no vax ospite d’onore a un congresso di immunologi? E un visionario terrapiattista chiamato ad arringare una platea di astrofisici? E un fanatico pro life incaricato dall’Agenzia Italiana del Farmaco di valutare gli effetti collaterali della RU486?
È vero: viviamo in tempi che mettono a dura prova la nostra sensibilità al paradosso, e certe domandine facili facili, come queste, o come quelle che Socrate poneva ai suoi interlocutori («a chi faresti guidare una nave? A un calzolaio o a un timoniere?») oggi potrebbero ricevere risposte spiazzanti. E tuttavia certi limiti di decoro intellettuale rimangono, ci si augura; e se sulle verità l’accordo è difficile, sulle menzogne palmari il consenso dovrebbe risultare immediato, almeno fra i competenti. Per questo va giudicata una spericolata prodezza un’iniziativa dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Vi aspettereste, quale ospite di un prestigioso convegno dedicato a Eugenio Montale, una poetessa che altri titoli non ha se non quello di aver diffuso e difeso a oltranza uno dei più dozzinali falsi letterari dei nostri tempi? Un falso montaliano, ovviamente.
Ma ecco fatti e antefatti. La poetessa è l’italo-elvetica Annalisa Cima, nota alle cronache letterarie (e giudiziarie) degli ultimi decenni; domani, a Milano, sarà lei a intrattenere i partecipanti alla tradizionale Scuola Estiva di Studi Montaliani. Considerata da molti “l’ultima Musa” di Montale, che l’avrebbe frequentata dal 1969 al 1980, la Cima si è fatta conoscere nel 1986: Montale era morto da un lustro, e la Musa rese nota una raccolta postuma che il poeta avrebbe dedicato e affidato a lei, in gran segretezza, ingiungendole di pubblicarla post mortem. La raccolta è il celebre Diario postumo, che uscì per Mondadori nel 1996.
Mirabolanti le modalità di pubblicazione previste dal poeta, a dire della Cima: i testi sarebbero stati chiusi nel 1980, di fronte a un notaio, in 11 buste, contenenti ciascuna 6 liriche, a parte l’undicesima, che ne serbava ben 24 per il pirotecnico finale. Le liriche debitamente imbustate dovevano uscire in rate annuali, a partire dal quinto anno dopo la morte di Montale. Così è stato: scomparso il poeta nel 1981, dal 1986 al 1996 la Cima ha centellinato al mondo il suo tesoro, una busta all’anno, sei liriche per volta. Non pago delle poesiole, Montale avrebbe donato alla Cima cataste d’altri inediti (disegni, traduzioni, prose), nonché 24 testamenti (ventiquattro!), l’ultimo dei quali volto a incoronare la Cima plenipotenziaria di ogni lascito montaliano.Qualcuno parlò di una diabolica beffa del poeta. Gli eredi trovarono la cosa meno divertente.
Ad ogni modo, il rito delle rate incantò il mondo letterario, specie perché il Diario postumo rivelava un Montale sorprendente, pieno di candore e di malinconico ottimismo, a tratti incline alla conversione cattolica. La critica appoggiò massicciamente la Cima contro i pochi, meritori scettici, che trovavano nelle liriche prove patenti di falsificazione: fra questi, primo e sommo, Dante Isella. Ma dall’altra parte militavano autorità filologiche come Rosanna Bettarini e Maria Corti, poeti come Andrea Zanzotto, critici come Giuseppe Savoca. Un coro nutrito e chiassoso che zittì gli avversari, con l’aiuto di molta stampa compiacente. Risultato: il Diario postumo è finito sotto il nome di Montale nelle biblioteche di mezzo mondo, complici le traduzioni in ben quattro lingue; e lo si trova anche in qualche antologia scolastica.
Ma il caso è stato riaperto, e definitivamente chiuso, fra il 2014 e il 2016, quando filologi come Paola Italia e Alberto Casadei, e le ricerche di un’équipe interdisciplinare che ho avuto l’onore di dirigere all’Università di Bologna, hanno dimostrato che siamo di fronte a un falso, per di più mediocre. Basti dire che le liriche alludono spesso a eventi di cronaca successivi alla morte di Montale; che i testi sono un collage puerile del Montale noto; che le grafie dei manoscritti sono incompatibili con quella di Montale; in compenso, il riscontro grafologico più impressionante è fornito da un falso Palazzeschi pubblicato dalla Cima nel 2009. È risultata falsa anche una recensione che Montale avrebbe dedicato al primo libro poetico della Cima; recensione entusiastica, ovviamente, edita postuma dalla Cima, per Il Melangolo, nel 2006. Purtroppo si tratta di un altro comico patchwork di citazioni montaliane, messo insieme da qualcuno cui grammatica e logica non furono amiche.
E questi sono solo alcuni degli argomenti che hanno seppellito il Diario postumo, oggi considerato da tutti gli specialisti una patacca. Pubblicazioni e convegni scientifici hanno sancito l’esito. Apprezzabilmente, la Mondadori ha annunciato che la raccolta non sarà più ristampata.
Ora, sappiamo bene, con Marc Bloch, che un falso è un fatto storico di primaria importanza; ed è un oggetto letterario che può attestare una straordinaria conoscenza dell’autore falsificato. Benissimo: ma deve essere un falso coi fiocchi. Il Diario postumo, purtroppo, è scadente anche nel suo genere. Incauto, dunque, chi mette in cattedra – di fronte a studenti e insegnanti liceali – colei che di un falso scadente è Musa e tutrice. Se un’illustre istituzione accademica fa questo, perché indignarsi, poi, se le scarpe le confezionano i timonieri, e le navi le guidano i calzolai?