Corriere della Sera, 15 luglio 2019
Joan Baez si ritira. Intervista
Il conto alla rovescia è agli sgoccioli: il 19 luglio Joan Baez salirà sul palco del Flowers Festival di Collegno, in provincia di Torino, per la sua ultima data italiana. Meno di 10 giorni dopo, a Madrid, terrà il concerto finale del suo «Fare thee well tour». Un addio alle scene che arriva a 60 anni tondi di carriera: mito di una generazione, l’«usignolo di Woodstock» a 78 anni saluta il pubblico portandosi via la sua voce straordinaria, consacrata al folk e all’attivismo.
È difficile stare sul palco sapendo che è l’ultimo tour?
«Il pubblico è emozionato tanto quanto me. Questo tour è un sollievo, ma porterà anche tante lacrime».
Come fa un artista a capire quando fermarsi?
«Tanti anni fa l’ho chiesto a un mio vocal coach e lui mi ha risposto “te lo dirà la tua voce”. E così è stato. Mi piace la voce che ho oggi e mi sostiene ancora, ma è cambiata e non posso più sforzarla a lungo. È più bassa, come succede con l’età, e non mi permette più di raggiungere certe note».
Tanti artisti si ritirano e poi ritornano: come se lo spiega?
«Quando non hai altro da fare nella vita, torni a quel che sapevi fare meglio e con cui ti sentivi più a tuo agio. Ma io ho altre cose da fare e poi non sono più tanto a mio agio sul palco».
Cosa farà?
«Una mostra di ritratti, sto prendendo parte a un documentario su di me e poi sto scrivendo. Mi sono resa conto che probabilmente sarà il mio ultimo memoir».
Pensa che non registrerà mai più altra musica?
«Non credo, sarebbe un lavoro estenuante».
Come ricorda i suoi inizi?
«Quel che ricordo con più intensità è la mia voce. Ho ricevuto un dono e ho cercato di darlo alla gente. E sono felice di aver sempre avuto una forte coscienza politica perché così ho potuto unire la musica all’attivismo».
Oggi i ragazzi sono abbastanza consapevoli?
«Alcuni lo sono,soprattutto i giovanissimi. Penso a chi si mobilita per il clima come Greta Thunberg. Poi c’è anche una parte a cui non interessa nulla perché sono troppo intrappolati nella tecnologia».
Lontana dai palchi come esprimerà il suo dissenso?
«Con i miei quadri, ad esempio».
Ha mai avuto paura negli anni delle marce e delle proteste?
«Alcune volte sì, altre volte avrei dovuto ma ero troppo stupida per preoccuparmi. Però ho fatto quello che andava fatto».
Woodstock compie 50 anni. Ci aiuta a immaginarlo?
«Ha coinvolto un’intera città e se anche la polizia avesse voluto arrestare chi fumava spinelli, non avrebbe saputo dove metterli. E così è finita che alcuni poliziotti hanno lasciato le pistole in macchina e sono venuti ad arrostire hot dog e ascoltare musica. È stato unico. Non avevo mai visto niente di simile e non ho più visto niente di simile dopo».
Per questo non parteciperà alle celebrazioni del 50°?
«Anche per questo. Se mi avessero proposto qualcosa per onorarlo, avrei detto ok, ma tentare di replicarlo, direi di no».
Pensa che il rap abbia sostituito il folk nel parlare del presente?
«È quello che hanno a disposizione i ragazzi oggi, però non raggiunge la grandezza di quel decennio incredibile di cantautori che abbiamo vissuto noi, con Bob Dylan, Joni Mitchell, Judy Collins...».
Lei ha conosciuto Martin Luther King...
«Era una persona meravigliosa e la cosa triste è che era estremamente divertente, ma non poteva essere spiritoso in pubblico perché veniva attaccato su tutto».
Con Ennio Morricone, invece, è nata la colonna sonora di «Sacco e Vanzetti».
«Lui e Furio Colombo mi hanno detto “devi scrivere questi tre pezzi di musica”. Io ho risposto “assolutamente no”. E loro “beh, fallo lo stesso!”. Chi l’avrebbe detto che da lì sarebbe nato quello straordinario pezzo di musica che è “Here’s to you” e che poi è diventato un inno un po’ ovunque».
Impossibile non legare il suo nome a Bob Dylan...
«Non ci sentiamo da 30 anni, ma non ha importanza. Tempo fa lo stavo dipingendo e all’improvviso mi sono resa conto che non ho più alcun tipo di rabbia o rancore nei suoi confronti. Che sono solamente fortunata e felice di averlo avuto nella mia vita. Tutti i litigi non contano proprio nulla».