Il Messaggero, 15 luglio 2019
Il caro estinto ai tempi di Facebook
Gli svedesi la chiamano dostadning. Una singola parola che sintetizza un concetto complesso: sistemare le cose prima di morire. Si tratta di una pratica sempre più diffusa in Scandinavia, al punto che alcuni manuali dedicati sono rimasti per molte settimane in cima alle classifiche di vendita. Oggi però, sistemare le cose, significa anche pensare alla propria «identità digitale» e fare i conti con un argomento tabù come la morte. «Con i social network il rapporto con certi temi è diventato ancora più complesso, dobbiamo imparare ad affrontarli con più serenità». Ad affermarlo è Davide Sisto, 41enne professore di filosofia teoretica dell’Università di Torino, e scrittore di La morte si fa social (Bollati Boringhieri, 149 pag.,16,50), un libro pensato proprio per indagare questo rapporto tra utenti, fine della vita e nuove tecnologie.
Professor Sisto, lei si definisce uno studioso della morte. Cosa significa?
«In realtà a me fa sempre sorridere essere chiamato tanatologo, però si semplicemente è un tema appassionante. Io ho una formazione filosofica basata soprattutto sull’epoca del romanticismo tedesco dove quello della morte è tema ricorrente. Inoltre banalmente fin da ragazzino ci ho ragionato molto e ho sviluppato una mia familiarità che mi permette di affrontarla serenamente, di studiarla appunto. Una serenità che non ritrovo affatto nella nostra società attuale che anzi l’ha completamente rimossa a partire dal secolo scorso: il mio ruolo ora, oltre a quello di docente di filosofia, è soprattutto aiutare ad avere un approccio giusto con il tema. Per questo lavoro anche con persone che spesso ci si trovano davanti. Ad esempio insieme ad alcune associazioni e a degli ospedali tengo dei corsi per infermieri e medici».
Tutto ciò cosa ha a che fare con i social network?
«Ho iniziato ad interessarmi al rapporto con i social dopo un episodio che mi è capitato. Una mattina di diversi anni fa ho ricevuto una notifica da Facebook in cui mi si ricordava di fare gli auguri di compleanno a un mio amico che purtroppo era morto da tre mesi. Questa cosa non solo mi ha colpito molto a livello emotivo ma mi ha fatto iniziare a ragionare su come le tecnologie digitali ci rimettono davanti alla morte».
In che senso?
«Nel senso che c’è un ritorno non voluto della morte davanti ai nostri occhi. Ad oggi Facebook è il più grande cimitero del mondo, ha quasi 50 milioni di utenti deceduti e ogni giorno ne muoiono circa 33 mila. Eppure spesso fingiamo di non vederlo, e questo potrebbe portarci a un’estremizzazione della rimozione che di certo non è sana».
Un altro tema è quello dell’eredità delle nostre vite sempre connesse.
«Ultimamente si parla molto di eredità digitale, in realtà però non siamo ancora pronti. Agli utenti mancano la consapevolezza dello strumento digitale e la serenità per affrontare il tema della morte. Anche perché, a seconda di come ci si relaziona, cambia drasticamente il risultato: oblio e eternità digitale sono due facce della stessa medaglia. Se lascio le mie informazioni in rete senza alcuna indicazione quelle resteranno lì, sui social ad esempio. Ma allo stesso modo, se non fornisco le password di accesso ai miei dispositivi a nessuno, magari nessuno dei miei cari potrà mai vedere le foto che ho salvate sul mio telefono. Dovremmo imparare a predisporre un testamento per la nostra vita digitale».
Il rischio è che la nostra identità digitale ci sopravviva?
«Facebook esiste dal 2004 e gli altri social da poco meno. Da 15 anni raccogliamo i nostri dati su delle piattaforme senza pensarci troppo. E fino ad oggi nessuno ha dato molto peso al fatto che una volta morti, i dati degli utenti resteranno online. Ciò porta a una sorta di sdoppiamento dell’identità, tra quella fisica e quella digitale che ha spinto anche diversi scienziati a dare un senso a questa sopravvivenza passiva rendendola attiva. Sono stati creati dei chatbot, dei programmi, per permettere alle persone che hanno subito un lutto di continuare a dialogare con il proprio caro».
Sembra tratto da un episodio della serie tv dispotica Black Mirror.
«Si però è realtà. La startupper russa Eugenia Koyda ha creato una app per iPhone chiamata Luka, che è in grado di elaborare i messaggi di un amico deceduto per continuare a dialogarci. Si crea una sorta di spettro digitale, che in pratica è l’evoluzione di ciò che un tempo facevano i medium. Ma esperimenti di questo genere ce ne sono tantissimi e riguardano ad esempio gli ologrammi. Ronnie James, il frontman del gruppo metal Black Sabbath, è morto nel 2010 ma attualmente è in tournée come ologramma».
La digitalizzazione però non riguarda solo social network e chatbot, la celebrazione sta diventando un affare digitale?
«Ora le agenzie funebri ad esempio vendono codici QR da mettere sulle lapidi che collegano alle pagine social del morto oppure a un blog. Ma all’estero si sta evolvendo molto anche lo strumento dei funerali in streaming. Sembra qualcosa di assurdo o addirittura vergognoso, ma è pensata principalmente per far partecipare chi non ha possibilità di esserci di persona».
C’è il rischio che si spettacolarizzi un aspetto che forse sarebbe meglio vivere intimamente?
«Si, ma il problema è ben più ampio ed emerge quando c’è un rapporto poco sano con la registrazione delle proprie attività quotidiane. Se qualcuno posta ogni singola cosa che fa durante il giorno, lo farà anche in situazioni particolari. Ad esempio una ricerca recentemente ha stabilito che un inglese su tre ha ammesso di farsi selfie ai funerali. Questo ha fatto molto discutere gli studiosi: è una forma di superficialità oppure un tentativo di normalizzare la morte?».