Il Sole 24 Ore, 14 luglio 2019
Gli Haiku di Andrea Zanzotto
Potenza metapsichica della sincronicità. Nell’ottobre del 2012, a un anno dal congedo, uscivano due testi di Andrea Zanzotto dall’eco tanto evidente quanto misteriosa. Einaudi ripubblicava, con intensa prefazione di Giuliano Scabia, il poemetto Filò che nel 1976 per la prima volta aveva ammesso alla sua scrittura il dialetto veneto, «parlar vecio» per lui materno e quotidiano. Negli Stati Uniti usciva invece Haiku for a season: corona di «pseudohaiku» scritti in inglese nell’84 con «versioni parallele e semiautonome» dell’autore (pseudo- perché incuranti della metrica giapponese; così li definiva Zanzotto con Marzio Breda, con prefisso che richiama la «pseudotrilogia» coeva del Galateo in Bosco, di Fosfeni e Idioma). Sette anni dopo gli «pseudohaiku» finalmente escono anche da noi, nello «Specchio» Mondadori; proprio mentre, di nuovo in sincronia, vede la luce da Quodlibet una collana dedicata da Giorgio Agamben (col titolo pasoliniano di «Ardilut») a «ogni ricerca di una lingua poetica che fuoriesca dal monolinguismo», a partire appunto dalla poesia in dialetto.
Insieme a un Pasolini ’44, I Turcs tal Friùl, e a un’antologia di Francesco Giusti, la inaugura una silloge delle «poesie in dialetto 1938-2009» di Zanzotto: operazione «non indolore» – avverte il curatore Stefano Dal Bianco – stante l’«architettura ferrea» di libri che alternano il «parlar vecio» all’italiano iperletterario cui si era legata, questa poesia, sin dall’esordio di Dietro il paesaggio. Ma «operazione» altresì preziosa, per capire intus et in cute quella che il poeta chiamava la sua «diglossia». Episodio-chiave, gli Appunti e abbozzi per un’ecloga in dialetto sulla fine del dialetto del ’69-71 ma, sinora, pubblicato solo su rivista. Scrivere in dialetto significa per Zanzotto inventare «’na lengua che varìe podest nàsser / e no l’è nassesta mai» («una lingua che sarebbe potuta nascere / e non è nata mai»). Lingua del non più, certo (come in Onde éli, suite di Idioma su care ombre sparite dalla «contrada»: a partire dalla «più cara delle sue zie», che scriveva poesie «co drento parole in latin»). Ma, anche, lingua del non ancora: infungibile per «riesumazioni o imbalsamazioni “da riserva”» e invece paradossale «guida (al di là di qualunque ipotesi sul suo destino) per individuare indizi di nuove realtà che premono ad uscire».
Così scriveva Zanzotto nella breve e iperdensa «nota» acclusa all’«eruzione» (così Dal Bianco) di Filò, poemetto originato dal lutto per la morte della madre, dalla committenza dell’amico Federico Fellini di dialoghi veneziani per il suo Casanova e dallo scuotersi micidiale della terra madre, nel sisma del Fiuli. Uno scritto straordinario, che a ragione Scabia paragonava a un De vulgari eloquentia del Novecento, e che si capisce quanto premesse ad Agamben per inaugurare questo laboratorio. Come in quel testo aurorale, infatti, è nella poesia che la lingua si mostra nella sua «intima diglossia»: che in Dante separa il latino dall’italiano della «nutrice», mentre in Zanzotto distingue l’italiano dall’«oralità perpetua» del dialetto: che risuona «là sote e dentro, do inte ’l bas», come le immagini oniriche del cinema. In questo strato profondo della psiche, la parola della poesia è quella che «no l’é in gnessuna lengua / in gnessun logo» (questo il titolo, bellissimo, scelto per la silloge): perché la sua sede è «la gran laguna», «la gran lacuna» dell’essere.
Quello degli Haiku per una stagione è un giro di vite. Nella loro struttura minima, adottano una lingua «quasi al grado zero»: l’inglese della globalizzazione, infestante parola-alien che erompe durante una grave crisi depressiva, «per bolle»: eruzioni epidermiche, sfiati improvvisi di un sobbollimento da pentolone streghesco, macbettiano, o piuttosto da soffione geotermico, vulcanico. Una «beltà» mostruosa e medusea: come, nel disegno di Fellini da cui tutto si è originato, la «gigantesca e nera testa di donna» che emerge dalla laguna veneziana, «la gran madre mediterranea (…) che abita in ciascuno di noi». La spinta iconica del Virgilio-Fellini ha precipitato il Dante-Zanzotto nella sua stagione all’inferno (la Season, la Saison cui alluderanno gli Haiku). Ma allora l’auto-diagnosi della «diglossia» si corregge, pascolianamente, in una triglossia (un «idioma trifarium», per dirla col De vulgari eloquentia originale): all’italiano “diurno” e veicolare sottostà l’“infero” dialetto e si sovrappone il “supero” e «superfluente» inglese: che ha preso il posto, quale parlata «tendenzialmente panterrestre», del latino. Il latino della zia poetessa che negli anni Sessanta Zanzotto evocava come «lingua morta e lingua della morte».
Sotto la pelle della lingua, sotto la terra della mente – dietro il paesaggio, insomma – cova persistente qualcosa di oscuro e terribile. Zanzotto, guerriero mite e indomito, quella Medusa l’ha sempre sfidata. Talvolta evocandola in cifra, per obliquo; talaltra guardandola negli occhi, segnandocela a dito. Ma sempre con audacia – quella che si dimostra solo quando si ha davvero paura. Quella stessa paura, scura tenebrosa lampeggiante, che ci avvolge ora che non c’è lui a indicarci il sentiero – a farci coraggio.