Il Sole 24 Ore, 14 luglio 2019
Storia del silenzio e del sensibile
C’era una volta – cito a memoria – Il silenzio del mare di Vercors, e c’era Il silenzio tout court di Ingmar Bergman. Un breve romanzo sulla Resistenza francese (1942) e un film (1963) con una strana vicenda ambientata in un Paese altrettanto strano, e tanti primi e primissimi piani intervallati da pause interminabili. Erano gli anni della cosiddetta “alienazione”, di cui era maestro – a furor di campi lunghi e di lunghi silenzi, appunto – anche il nostro Michelangelo Antonioni. E poco importa se qualche sprovveduto spettatore finiva per appisolarsi sulla poltrona del cinematografo.
Venne poi Il silenzio degli innocenti, un film horror (1991) tratto da un romanzo di Thomas Harris (1988), con un inarrivabile Anthony Hopkins nei panni di Hannibal the Cannibal. E quella volta, quasi a sconfessare il titolo, il silenzio in sala fu di frequente interrotto da gridolini di terrore.
C’era anche Il silenzio (Chinmoku, 1956) del giapponese Sh?saku End?, poi trasposto in film da Martin Scorsese (1971); e Silenzio(1961), una raccolta di saggi del compositore John Cage; oltre ad un libro di Francis Scott Fitzgerald, Silenzio per sveglia (1935), il cui titolo si riferisce all’assolo per tromba che in caserma segna la fine della giornata. Lo stesso, per intenderci, del famoso 45 giri fuori ordinanza del nostro Nini Rosso (1966).
Ora, anche se sappiamo tutti benissimo di che cosa si tratta, c’è sempre qualcuno a cui non basta parlare del silenzio come si fa con un qualsiasi dato dell’esperienza, ma che vorrebbe definirlo sul piano ontologico. Comprendere che cosa sia in sé. Perché, afferma sempre quel qualcuno, il silenzio non è solo assenza di suono; cioè di energia, come direbbe un mio lontano parente ingegnere.
Anni fa, un filosofo-poeta o poeta-filosofo svizzero, Max Picard, si prese infatti la briga di indagare l’arcano in un libro, Il mondo del silenzio (Comunità, 1951), di recente ritradotto (2007) da Jean-Luc Egger per la editrice Servitium: «La parola è nata dal silenzio: dalla pienezza del silenzio. E questa pienezza sarebbe esplosa se non avesse potuto confluire nella parola perché la parola che nasce dal silenzio è come investita di una missione: è legittimata dal silenzio che l’ha preceduta».
Se il timbro non è vibrante il tono è quasi sacrale, e quella di Picard è una voce che ha l’ambizione di imporsi sul piano dell’eternità. Dove il tempo – passato, presente e futuro – implode nella rivelazione profetica, e solitudine e silenzio sono un tutt’uno.
Il mondo del silenzio si colloca infatti accanto ai libri di altri solitari del passato. Da Aurelio Agostino a Petrarca e da Leopardi a Machado, passando per il Timone d’Atene di Shakespeare e il Robinson Crusoe di Defoe, fino a quella singolare figura di eremita laico che è stato il rumeno Constantin Noica, appartatosi in un paesino sui Carpazi durante la dittatura di Ceau?escu «non per fuggire il mondo ma per conquistarlo da lontano».
Come la solitudine, il silenzio può essere doloroso; e tuttavia sono proprio i sovrumani silenzi e la profondissima quiete di cui parla Leopardi nell’Infinito a darci il senso dell’ineffabile; ovvero di quel momento di sospensione in cui «le cose | s’abbandonano e sembrano vicine | a tradire il loro ultimo segreto» (e qui è Montale che parla di rincalzo) e «ci si aspetta | di scoprire uno sbaglio di Natura, | il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, | il filo da disbrogliare che finalmente ci metta | nel mezzo di una verità».
Una sorta di illuminazione interiore, del tutto secolare e non trascendente, che sancisce – sembra di capire – la percezione di quella identità tra sé e l’universo (uni-versus, il mondo inteso come dotato di direzione, cioè di senso) che a sua volta è la risposta della mente stupefatta sulla soglia dell’assoluto.
Il silenzio che abbaglia e stordisce – ed è foriero di sensazioni estatiche – è anche l’argomento di di due libri più recenti: di Sara Maitland e Erlin Kagge, rispettivamente. Il primo, A Book of Silence (Graywolf Press, 2008), echeggia nel titolo quelle raccolte di preghiere che erano i libri d’ore, ed è una sorta di resoconto autobiografico delle esperienze vissute, a partire da un certo momento della propria vita, da una protagonista abbastanza abbiente da potersi permettere lunghi viaggi e l’acquisto di solitarie dimore in località sperdute della Scozia per vivere pienamente nella dimensione della solitudine e del silenzio. Con internet ma senza telefono.
Il libro di Erling Kegge appartiene invece al filone ecologico salutista. Il titolo, tradotto letteralmente dal norvegese in inglese, è Silence in the Age of Noise: The Joy of Shutting out the World. In italiano diventa un fin troppo ambizioso Silenzio. Uno spazio dell’anima, (Einaudi, 2017). Si tratta di un vivace resoconto, interrotto da qualche banalità filosofica, di lontane esperienze di un esploratore – nonché avvocato, collezionista, imprenditore, uomo politico, scrittore ed editore –, panteista nella sostanza e attivo sotto tutte le latitudini, che si è spinto, negli anni ’90, prima al Polo Nord percorrendo 800 chilometri sugli sci; poi al Polo Sud, viaggiando in solitaria e senza radio per 50 giorni; infine in cima all’Everest, che è la terza estremità del pianeta. E poiché gli mancava l’esperienza del silenzio sottoterra, nel 2010 Kegge ha attraversato in cinque giorni la città di New York, dal Bronx a Manhattan fino all’Atlantico, lungo fogne, tunnel per l’approvvigionamento idrico e linee della metropolitana. Tendendo l’orecchio e turandosi il naso.
Ultimo, l’Histoire du silence di Alain Corbin (Éditions Albin Michel,) ora tradotto con successo anche in inglese. Il sottotitolo è De la Renaissance à nos jours, ma la suddivisione dei capitoli non è cronologica bensì tematica, e il libro è un un thesaurus di citazioni (ne ho contate circa 350) che si dimostra vincente più di tanti discorsi. La pagina di un romanziere o di un poeta, infatti, riesce sempre a fare “entrare” il lettore nella realtà virtuale che sta rappresentando, laddove i documenti e gli scartafacci d’archivio possono solamente offrire uno spunto dal quale partire per la rielaborazione storiografica.
Corbin è un affermato «historien du sensible», specializzato nell’indagine di fenomeni “inafferrabili”, come la mentalità o l’immaginario della gente in un certo periodo, o realtà fisiche quali gli odori e i rumori, la pioggia e il maltempo, con relativi commenti e previsioni, nelle case e nelle osterie. Nella Histoire du silence si avvale di uno stuolo di scrittori, in maggioranza francesi – da Pascal e Milton a de Vigny e Hugo; da Thoreau e Whitman a Baudelaire e Verne; e da Zola e Huysmans a Maeterlinck e Claudel, fino a Proust e Camus – come della fonte più sicura per dare al lettore un’idea di come il silenzio sia stato percepito nei secoli.
C’è il silenzio che avvolge gli oggetti famigliari e i luoghi solitari – chiostri, chiese, cimiteri e carceri – e il silenzio delle strade deserte e delle foreste impenetrabili. Il silenzio come rifugio o come minaccia. Come scelta tattica in società e nella vita privata. Il silenzio che accomuna gli amici e il silenzio ambiguo degli amanti. Il tutto contenuto nella parentesi del silenzio biblico precedente la Creazione e l’apertura del settimo sigillo nell’Apocalisse. Quando suoneranno le trombe che tutti sappiamo.