Il Sole 24 Ore, 14 luglio 2019
A tavola con Giulio Terzi di Sant’Agata
«L’intelligence esiste fin dai tempi della battaglia delle Termopili. Nel 480 prima di Cristo, il re dei persiani Serse riuscì a piegare i greci guidati dallo spartano Leonida soltanto quando un greco di nome Efialte tradì i suoi rivelando che un sentiero sulla collina aggirava il valico. Oggi, però, la tecnologia ha cambiato tutto. L’intelligence. La diplomazia. Il concetto di guerra. L’idea della pace. Il potere. La geopolitica. I rapporti fra gli Stati e le grandi imprese che, appunto, forniscono l’ossatura materiale e immateriale delle nuove tecnologie. Siamo di fronte a una vera e propria mutazione della struttura della realtà».
Giulio Terzi di Sant’Agata, diplomatico, è un uomo abituato a misurare le parole che, seppur con la prudenza e la fisiognomica della feluca di lungo corso, delle parole non ha mai avuto paura. Qui, a Roma, al ristorante Molto di viale dei Parioli, un locale borghese che sfugge al cliché della cattiva ristorazione romana che confonde la tradizione culinaria con il mausoleo del gusto e la serenità del desinare con il rito dell’apparire, inizia la nostra conversazione con una citazione da Erodoto sul conflitto fra i persiani e le città greche, per portarla subito nel cuore dell’attuale mutamento di paradigma. «La tecnologia – dice – ha progressivamente ridotto lo spazio fra l’acquisizione della informazione, la scelta della politica e l’azione sul campo. Questo vale per le operazioni militari in tempo di guerra e per le operazioni coperte in tempo di pace. La stessa contrazione del tempo si verifica nello spazio aperto della geopolitica con una crescente sovrapposizione fra l’avvenimento, la sua analisi e la decisione».
Di antipasto, lui sceglie delle seppioline cacio e pepe, una combinazione ardita ma non spregiudicata. Io, invece, prendo del vitello tonnato guarnito con capperi di Pantelleria, il cui sale conferisce un tono questo sì piacevolmente spregiudicato a un classico della cucina piemontese.
Terzi è stato ambasciatore negli Stati Uniti, in Israele e all’Onu e ministro degli Esteri del governo Monti. Ha sempre avuto posizioni robustamente filoatlantiche e filoisraeliane e fortemente critiche verso l’Iran, la Cina e la Russia. Il suo europeismo non è solo istituzionale, ma è soprattutto culturale, retaggio di una educazione di altri tempi, condotta dalla seconda media alla quarta ginnasio al severo collegio San Francesco dei padri barnabiti di Lodi e poi dalla quinta ginnasio alla terza liceo al classico Sant’Alessandro gestito dalla diocesi di Bergamo. La sua è una antica famiglia di Bergamo Città Alta. In particolare il nonno Edmondo, fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, sviluppò aziende agricole fra la Bergamasca e il Bresciano: foraggio, latte e carne. Le principali tenute erano a Curno e a Brembate di Sopra: «Con mia moglie Antonella e con i miei figli Nina e Giulio Giuseppe andiamo d’estate in una vecchia casa di famiglia a Ponte San Pietro». Sua madre Alfonsina veniva da Cagliari. Suo padre, Giuseppe Alessandro detto Pino, è stato vice federale di Bergamo durante il fascismo. «Anche per questa ragione – dice – ho sempre avuto una cultura conservatrice. Né nostalgica, né fascista. Ma di destra. Quando, in Italia, era meglio non sbandierarla troppo. Lo capii all’inizio della facoltà di Legge alla Statale di Milano. Al liceo ero iscritto alla Giovane Italia. Pensando alla carriera diplomatica, decisi di non iscrivermi al Fuan, il Fronte universitario d’azione nazionale. Era un poco malinconico ma in fondo anche divertente quando, da diplomatico di carriera, incontravo l’amico Mirko Tremaglia. Appena chiudevamo la porta, ci davamo del tu ed erano baci e abbracci. Non appena entrava qualcuno nella stanza, passavamo subito a un formalissimo lei».
Terzi sorride al ricordo di quell’affettuoso giocare a nascondino con la propria natura conservatrice e con l’appartenenza a una comunità di origine, nel suo caso specifico, mai resa cupa da nostalgie, ma immersa nelle culture tradizionaliste e conservatrici di matrice anglosassone. Sorride, mentre arrivano i primi piatti: lui ha preso un riso al salto con totanetti e bottarga, mentre io ho scelto delle più tradizionali mezzemaniche con pomodorini vesuviani, basilico e ricotta stagionata.
Con Terzi, classe 1946, succede questo: nella conversazione, grazie alla sua dimensione pubblica e privata insieme molto italiana e molto internazionale, si passa in un secondo dal Novecento più profondo e drammatico al presente più complesso e ambiguo, fino al futuro più inquietante e insondabile. Un mutamento provocato anche dalla rivoluzione tecnologica.
Terzi è stato ministro degli Esteri del governo Monti. «Alla Farnesina – ricorda, mentre beviamo del riesling Rain di Alois Lageder – ho dato un impulso forte alle attività digitali, istituendo l’utilizzo dei social network, prima Twitter e poi Facebook, strumenti utilissimi per la diplomazia digitale e per comunicare in alcune crisi drammatiche, come la guerra civile in Siria e il caso dei due marò in India, Latorre e Girone, i fucilieri di marina accusati della morte di due pescatori al largo del Kerala: su Facebook a quell’epoca siamo arrivati ad avere oltre 330mila interazioni a settimana con la cittadinanza, tra visualizzazioni dei nostri post, commenti, reaction e condivisioni».
Adesso è presidente e socio di Cybaze, una società specializzata in cybersecurity nata dalla fusione fra tre aziende (Yoroi, Mediaservice ed Emaze) che ha un fatturato di 10 milioni di euro e 150 addetti, fra tecnici e ricercatori. Sulla mutazione strutturale imposta dalle tecnologie alla geopolitica in senso ortodosso, sui nuovi equilibri fra ordine occidentale e potenze autocratiche emergenti e sul dualismo guerra e pace, Terzi offre diversi punti di vista: ha operato per cinquant’anni nelle stanze ovattate della democrazia, a un certo punto ha assaggiato quanto sa di sale lo pane altrui dismettendo i panni del diplomatico e diventando ministro del poco amato dagli italiani – per usare un eufemismo – governo Monti e adesso – secondo la tradizione delle porte girevoli americane – fa l’imprenditore.
«Oggi tutti si concentrano sulla scorribande di Trump via Twitter. L’aggressività verbale è un classico della diplomazia novecentesca: nasce con i sovietici. Ma la sua declinazione sui social media è stata ampiamente assorbita dalle diplomazie internazionali. Il punto è quello che è cambiato con le grandi reti. Con internet e con il dark web. Con l’amplificazione della zona grigia fra chi opera per conto di uno Stato e chi, invece, si muove nella pura e semplice illegalità. C’è il problema della contrazione del tempo nella geopolitica provocata dalle tecnologie, che adesso diventeranno ancora più pervasive ed efficienti con l’introduzione del 5G. E c’è il problema del Far West nelle nuove forme di conflitto: nessuno vuole la applicazione del diritto internazionale, per esempio, alla cyber-war. Princìpi come la proporzionalità fra offesa e difesa e il rispetto delle popolazioni inermi, in questo caso specifico, non vengono contemplati. All’Onu non passa nulla. Con gradazioni diverse, sono tutti contrari: gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, Israele, l’Iran, il Pakistan, l’India, il Giappone, l’Inghilterra, la Germania, la Francia».
Tutto è cambiato radicalmente. La geopolitica del Novecento derivava dalla fondazione dello Stato moderno. La tecnologia, oggi, sta rimodellando il mondo per come lo abbiamo sempre conosciuto. «Le imprese Big Tech difendono la inaccessibilità alle fonti statali dei loro dati in nome della privacy dei clienti. Rifiutano di collaborare con le autorità occidentali e poi si comportano come cagnolini con le autorità dei Paesi autocratici. Tutto questo crea asimmetrie significative nelle reti che innervano la nostra realtà civile ed economica, politica e militare».
La nuova categoria del tempo fissata dal mutamento tecnologico e i nuovi equilibri fra democrazie occidentali declinanti e autocrazie in ascesa. Le nuove forme di guerra e le ambiguità degli oligopoli oligarchici delle Big Tech, che si atteggiano a seconda delle situazioni come se fossero legibus solutus (sciolti dalle leggi) o come se fossero docili strumenti nelle mani di chi esercita un potere privo delle mediazioni e delle pruderie delle democrazie liberali. Tutto questo crea una realtà mutevole e sfuggente, sempre prossima a diventare caos. Prima di prendere il caffè e di bere un passito di Pantelleria, prendiamo entrambi come dessert zabaione con biscotti frammentati dentro. E, di fronte a tutta questa terra incognita, è quasi di sollievo sentirlo ricordare un pezzo di terra nel Negev, in Israele: «La casa di Amos Oz era spartana, fuori dal tempo, altro che tecnologie di ultima generazione. Le librerie erano fatte con semplice metallo e bulloni. Un microcosmo che, però, era aperto agli altri. Chiacchieravamo bevendo vino del Golan. Parlavamo spesso del processo di pace. Lo scrittore era contrario alle rimozioni degli ulivi e dei villaggi dei palestinesi. Usava sempre questa immagine: ebrei e palestinesi sono due famiglie che vivono nello stesso appartamento e che devono trovare il modo di conoscersi, di vivere insieme, di capirsi e di amarsi». E, mentre beviamo il caffè, viene da augurarsi che, non solo in Israele, la nuova legge tecnologica e il nuovo caos geopolitico non isteriliscano e non cancellino l’impulso degli uomini a conoscersi e a vivere insieme, a capirsi e ad amarsi.