il Giornale, 14 luglio 2019
La storia d’amore tra Mussolini e Claretta Petacci
Non ha avuto pace neanche dopo morta, e solo nel 1956 – erano passati 11 anni da Piazzale Loreto – i familiari hanno potuto darle una tomba. Da allora riposa al Verano, all’ombra di una statua che la raffigura con il volto e il busto protesi in avanti e le braccia gettate all’indietro, come se stesse per prendere il volo. Sul sarcofago di marmo rosa c’è scritto soltanto: «Claretta Petacci 1912-1945».
La gente, comunque, non ha bisogno di chiedere chi sia: lo sa. È poco importa se taluni la considerano un’eroina, e altri una povera vittima, o peggio. Un posto nella storia Claretta ce l’ha perché la sua vicenda personale si intreccia con quella di un periodo tragico del nostro passato. Non foss’altro che per questo è giusto rievocarla.
I Petacci erano un’antica famiglia che vantava origini aristocratiche, Ma che socialmente apparteneva al «generone», ossia all’alta borghesia romana. Il padre di Claretta, Francesco Saverio, era medico del Vaticano; la madre, Giuseppina Persichetti, veniva da una famiglia di costruttori edili senza quarti di nobiltà ma con sostanziosi conti in banca. Andavano abbastanza d’accordo, anche se, come carattere, si trovavano ai due poli opposti: lui mite riservato, amante del quieto vivere. e, lei, energica, volitiva, rosa da un’ambizione che riversava suoi figli. E questi non la deludevano.
Il maschio di famiglia, Marcello, avviato alla laurea in medicina, mirava senza mezzi termini alla carriera e alla ricchezza. La figlia minore Myriam aspirava ad affermarsi come attrice, ma nei limiti del possibile e del ragionevole, perché non mancava di senso critico e sapeva di non essere una Duse. La primogenita Claretta, invece, sognava: che cosa non si sa bene, e forse non lo sapeva neppure lei. Ma certamente grandi cose.
Aveva una carica di entusiasmo che esplodeva violenta e la spingeva a sposare qualunque causa purché fosse romantica ed eroica: e in questo non c’era nulla di artefatto. Si potrebbe dire che era per natura una fanatica e un’esaltata. Ma bisognerebbe subito aggiungere che la differenza tra l’idealista e l’esaltato e tra l’ispirato e il fanatico sta soprattutto nella angolatura dalla quale li si guarda.
Esteriormente, Claretta era la classica ragazza-bene: curava il proprio vestiario e la propria persona, nuotava, sciava, giocava a tennis, suonava il violino e il pianoforte, frequentava l’opera e le mostre d’arte, leggeva i best sellers dell’epoca e scriveva poesie né migliori né peggiori di tante altre. Più tardi, riscoprì un’antica vocazione per il disegno e dipinse una serie di quadri delicati e gradevoli alla vista. Uno di essi, dal titolo La strada bianca, è riprodotto in quasi tutte le sue biografie, perché il paesaggio immaginario che vi aveva raffigurato somiglia stranamente a quell’angolo di Giulino di Mezzegra in cui la morte la colse. Si direbbe che un oscuro presagio le avesse guidato la mano. Ma probabilmente non è così, perché la tela è del 1936 e a quell’epoca Claretta non conosceva altro che il gioioso entusiasmo e la fiducia nella vita.
Un clima da romanzo rosa
Come molte giovani di allora, ammirava Mussolini. Ma lo ammirava alla sua maniera, mitizzandolo e facendone l’oggetto di un culto in cui l’immagine del «grand’uomo» si fondeva con quella del «prode cavaliere» e perché no del «principe azzurro». C’era in lei molto D’Annunzio di seconda mano. E anche questa era una caratteristica della sua generazione.
Il suo primo, fortuito incontro con Mussolini è stato fin troppe volte descritto. In un giorno d’aprile del 1932 – Claretta aveva da poco compiuto i 20 anni – la famiglia Petacci decise di andare in gita ad Ostia. Salirono sulla loro macchina targata Città del Vaticano e guidata da un autista in uniforme, inconfondibile status symbol dell’epoca, e imboccarono l’allora nuovissima autostrada. Claretta sedeva accanto al fidanzato, il sottotenente dell’Aeronautica Riccardo Federici che qualche requisito di principe azzurro l’aveva, essendo uno dei pochi ufficiali designati a partecipare alla storica crociera americana di Balbo.
Erano circa a metà percorso quando li sorpassò sfrecciando un’Alfa Romeo rossa, modello da corsa. E Claretta, che ne aveva subito riconosciuto il guidatore, balzò in piedi sbracciandosi e gridando: «È il Duce! Viva il Duce!». Poi all’autista: «Raggiungilo. Devi raggiungerlo ad ogni costo!».
Non ce l’avrebbero mai fatta se Mussolini, incuriosito, non si fosse lasciato sorpassare. Vide una ragazza vestita di bianco che lo fissava come in trance, le sorrise e tornò a premere l’acceleratore. Di nuovo Claretta gridò all’autista: «Raggiungilo!» e il giochetto si ripeté un paio di volte fino a quando le due automobili – e quella della scorta di Mussolini – si fermarono in riva al mare a poca distanza l’una dall’altra.
Claretta balzò a terra, corse incontro al suo idolo, si presentò, presentò i familiari e trovò il modo di raccontare che tempo prima aveva inviato a Palazzo Venezia un quaderno di poesie dedicate al Duce e non aveva avuto risposta. «Ah, sì, credo di ricordare» mentì Mussolini che se la divorava con gli occhi: perché Claretta era bella, anzi bellissima. Coloro che l’hanno conosciuta sono concordi nell’affermare che le fotografie non le rendono giustizia.
L’incontro finì con qualche frase di circostanza, e Claretta non sperava quasi più che avesse un seguito quando un giorno il telefono di casa Petacci squillò. «Posso parlare con la signorina Clara?», disse una voce. Sono quel signore di Ostia». E Claretta, sconvolta e balbettante, seppe che Mussolini aveva ritrovato le sue poesie e la invitava a Palazzo Venezia per discuterne.
Vi andò (accompagnata dalla madre fino al portone), e ne discussero. Ma nessuno dei due pensava alle poesie che Mussolini, tra l’altro, confessò di non avere ancora lette. Lei tremava dall’emozione, lui la fissava in modo strano. «Lo sapete che quella notte non ho dormito pensando a voi?», le disse. E aggiunse come parlando a se stesso: Siete così giovane». Aveva infatti la stessa età di sua figlia Edda.
Si rividero più volte – forse una dozzina – durante i mesi che seguirono. Parlavano di musica e di poesia, stavano alla finestra a osservare il volo delle rondini, si guardavano. Un giorno lui le confessò di sentirsi solo, e lei rispose che lo capiva. Ma, nonostante quel clima da romanzo rosa, nessuno pronuncio la parola amore.
Claretta era sempre fidanzata con il tenente Federici e non solo intendeva sposarlo, ma si indispettiva per certi suoi tentennamenti dell’ultima ora. Lo sposò, finalmente, nel 1934 e visse con lui a Orbetello il tempo che bastava a scoprire che il matrimonio era un disastro. Forse, soltanto allora, si rese conto che la sua non era idolatria del «grande capo», ma passione amorosa, violenta ed esclusiva. E dovette accorgersene anche suo marito, che non le risparmiò le scene di gelosia e che, ad un certo punto, la lasciò per andare volontario in Africa. Al ritorno fu nominato addetto aeronautico a Tokyo, e prima di partire, chiese la separazione legale.
Così, nell’estate del 1936, mentre l’Italia festeggiava l’Impero, Claretta si ritrovò in quella condizione di «moglie separata» che secondo gli ipocriti costumi dell’epoca equivaleva a una tacita licenza di adulterio per lei, e a un mezzo alibi per il suo eventuale amante: perché una cosa era «sedurre» una nubile, magari vergine, un’altra cornificare» un marito in carica e un’altra ancora accogliere nel proprio letto una donna che formalmente era ancora sposata ma in pratica non apparteneva più a nessuno. Le visite a Mussolini, interrotte durante il periodo di Orbetello, ripresero quindi con maggior libertà e si fecero sempre più frequenti. Ma prima che si giungesse a una vera e propria relazione accadde un episodio che, a raccontarlo oggi, sembra incredibile: Mussolini convocò a Palazzo Venezia donna Giuseppina Petacci e, guardandola negli occhi, le chiese: «Signora, mi permettete di amare Clara?». Solo a permesso accordato la passione raggiunse il suo fatale traguardo.
Al di là di ogni riferimento ai fumetti, comunque (ma quanto c’era di non fumettistico in quei remoti anni 30?) bisogna dire che Mussolini aveva davvero perso la testa per Claretta Petacci. Era la prima volta che si innamorava sul serio e la cosa poteva sembrare strana per uno come lui, che di donne ne aveva avute tante, e di ogni età ed estrazione sociale. Ma forse una spiegazione c’è, e potrebbe essere quella che Myriam Petacci ha dato nelle sue memorie.
Furiosi accessi di gelosia
Un giorno – riferisce Myriam – Mussolini confidò che, quando era ancora un giovane e squattrinatissimo maestro di scuola, incrociava spesso sulla strada di casa carrozze di lusso guidate da cocchieri in livrea, che trasportavano forestieri, ospiti alle feste organizzate da un ricco proprietario terriero della zona, il futuro presidente del Consiglio, Adone Zoli. E raccontò che su quelle carrozze, mentre si scansava per evitare gli spruzzi di fango, gli era capitato di intravedere ragazze splendide e raffinate, che parevano uscire da una favola proibita per lui e che naturalmente non lo degnavano di uno sguardo. Ed ecco che ora, una di quelle ragazze – non un’intellettuale spregiudicata o una nobildonna in cerca di avventure, ma una signorina di buona famiglia, anzi, una vera signora, e per giunta bellissima – si gettava i suoi piedi offrendogli un amore adorante. Per l’ex-proletario Mussolini era il simbolo della rivincita, così come per l’ex-caporale lo era stato il bastone di Maresciallo dell’Impero.
Più tardi, la magia si dissolse e gli ardori di Mussolini si affievolirono. Ma per almeno sette anni la relazione fu intensa e ininterrotta. Ogni giorno, alle 14, Claretta arrivava a Palazzo Venezia e, passando da una porta posteriore, saliva al suo appartamento», che era poi una camera con bagno. Si metteva quindi in vestaglia e restava fino alle 18 o alle 20, ad ascoltare dischi e a leggere libri e giornali, in attesa che Mussolini trovasse, tra un impegno e l’altro, il tempo per fare l’amore con lei. E pare che lo trovasse sempre, anche più di una volta al giorno.
La domenica il programma cambiava. Durante l’estate, Mussolini, Claretta e l’ancora adolescente Myiriam, che nelle intenzioni della coppia doveva salvare le apparenze, andavano a fare il picnic e a prendere il bagno sulla spiaggia privata di Castelporziano: e a preparare la cesta con i cibi era donna Giuseppina, che sosteneva di essere la sola a saper curare l’ulcera del Duce, e otteneva palesi successi anche perché, come risultò poi dall’autopsia, quell’ulcera non esisteva affatto. D’inverno, invece, i tre andavano a sciare al Terminillo, dove l’Albergo Impero teneva sempre a loro disposizione le stanze migliori: singola per Myriam, matrimoniale per Mussolini e Claretta.
Vista con gli occhi di oggi, quell’esistenza appare squallida e umiliante. Ma Claretta era felice: aveva conquistato il suo idolo, ne era sempre più innamorata e si sentiva al settimo cielo quando lui le chiedeva un parere, o l’incaricava di leggere i giornali stranieri e di segnare gli articoli interessanti. Soffriva solo perché Mussolini non la voleva con sé nei viaggi ufficiali. Allora restava appesa al telefono ad aspettare una chiamata che spesso non veniva: e questo le provocava accessi di gelosia furibonda, non sempre ingiustificati, perché Mussolini seguitava ad essere circuito dalle donne, e il suo gallismo non era certo una garanzia di fedeltà.
La gelosia, ad ogni modo, era la sola nube che offuscava i loro rapporti. Vi fu un brutto momento quando lei rimase incinta e abortì non senza qualche complicazione clinica. Ma le attenzioni di Mussolini la ripagarono della sofferenza, e tutto ricominciò come prima. O almeno, lei lo credette.
In realtà, il segreto della relazione era trapelato, specie da quando Mussolini aveva cominciato a frequentare la villa con salone e campi da tennis che i Petacci si erano fatti costruire alla Camilluccia. Ormai, non solo i gerarchi, ma anche gli ambienti militari e quelli di Corte sapevano»: e un odio feroce s’andava addensando su Claretta cui si attribuiva un’influenza politica che non aveva mai avuta. Perfino un osservatore attento e spregiudicato come Dino Grandi la definì una donna nefasta, e non se ne capisce la ragione: a meno che non condividesse anche lui la tesi secondo la quale quell’amore tardivo – e lo stress che comportava – avevano tolto a Mussolini la lucidità necessaria per fronteggiare gli eventi.
«Il mio destino è il suo»
All’oscuro di tutto era invece l’opinione pubblica, che cadde dalle nuvole quando all’indomani del 25 luglio 1943 i giornali raccontarono la storia, romanzandola e presentando Claretta come una specie di Pompadour e i suoi familiari come un branco di ladri e profittatori. Non era vero, perché il solo ad aver tentato qualche modesto intrallazzo era (e neanche questo è sicuro) Marcello. E lo prova il fatto che la Repubblica Italiana restituì ai Petacci i loro beni, Camilluccia inclusa. Ma, lì per lì, la fantasia popolare si accese e quando Claretta, Myriam e i loro genitori furono arrestati e rinchiusi nel carcere di Novara, la gente approvò.
Nel carcere, dove i Petacci subirono angherie e umiliazioni, Claretta non ebbe che un pensiero: il «suo» Mussolini, anzi il «suo» Ben. E quando il 9 settembre i tedeschi la liberarono chiese solo di poter tornare al suo fianco. Ma l’uomo che ritrovò non era più quello di prima. Lo sdegno popolare che la loro love story aveva suscitato e le rimostranze di donna Rachele (che, incredibilmente, aveva saputo la verità dai giornali) lo rendevano incerto, quasi vergognoso, troppo frustrato per accettare l’adorazione senza una punta di istintivo imbarazzo.
Claretta cercò di restargli vicina, ma ci riuscì solo fino a un certo punto. Ebbe un alterco violento con donna Rachele e ne uscì distrutta, non per le male parole che erano corse, ma per il fatto che Mussolini non ebbe il coraggio di farle una telefonata consolatrice. Si trovò contro le formazioni degli ultras del fascismo repubblicano che progettarono addirittura di rapirla per sottrarre il Duce alla sua «infausta influenza». E dovette vedersela anche coi tedeschi che cercavano di servirsi di lei, minacciandola e ricattandola. Dopo qualche mese, dovette abbandonare la villa sul Garda, dove si era illusa di rivivere i giorni del passato. Si trasferì al Vittoriale, dove rimase isolata. E cadde in uno stato di frustrazione non diverso da quello in cui versava Mussolini.
Si mosse invece Myriam che, prima dello sbarco alleato in Normandia, riuscì ad arrivare in automobile a Madrid e a strappare alle autorità spagnole la promessa di dare asilo alla sua famiglia. Al ritorno, fece il diavolo a quattro per avere un aereo, ma quando finalmente Mussolini poté procurarglielo, Claretta non volle salirvi.
Era il 21 aprile 1945, e le restava una settimana di vita. Mussolini le aveva ingiunto di fermarsi al Vittoriale, ma lei, disobbedendo, l’aveva seguito segretamente a Milano. E qui, in un appartamento di corso Littorio (oggi Matteotti) avvenne l’ultimo incontro con Myiriam. «Non posso darti ordini, ma sono la sorella maggiore e ti supplico di fare quello che dico. Porta via i nostri vecchi e lasciami qui» disse Claretta. «Ma perché?», chiese Myriam. «Perché non posso lasciarlo. Credi che potrei guardarlo in faccia dopo averlo abbandonato nel pericolo?».
Si salutarono alla fine, è l’ultima cosa che Myriam vide fu il volto della sorella che la guardava dalla tromba dell’ascensore. Le aveva consegnato una busta da aprire dopo l’atterraggio in Spagna. E dentro c’era una lettera che cominciava con le parole: «Io seguo il mio destino, che è il suo».
Il destino li fece ritrovare sulla strada di Dongo, concesse loro un’ultima notte in una casa di contadini, e in fine un’ultima alba, che salutarono insieme, ammirando la corona di montagne innevate intorno al lago. Poi arrivò il commando dei partigiani, li trascinò giù per i sentieri e le stradine fino all’ingresso di una villa di Giulino di Mezzegra, dove partirono le raffiche di mitra.
Ancor oggi, a 42 anni di distanza, non si sa chi fu a premere il grilletto. Ma fra le tante affermazioni menzognere contenute nel rapporto del presunto carnefice Walter Audisio, una sembra esatta: che Claretta rimase ferma fino all’ultimo accanto a Mussolini e che, quando intuì quello che stava per succedere, fece il gesto di pararglisi davanti, per proteggerlo.
Caricarono su un camion il suo corpo, insieme con quello di Mussolini, dei gerarchi fucilati a Dongo e di suo fratello Marcello, ucciso sotto gli occhi della moglie del figlio. Poi, a Milano, li scaraventarono ai piedi del famoso distributore di piazzale Loreto, dove la folla infierì su di loro con calci, sputi e qualcosa di peggio. Ad un certo punto, forse per evitare ulteriori oltraggi, li sollevarono e li appesero alle impalcature del distributore, a testa in giù, come si fa con gli animali macellati. E poiché la gonna di Claretta tendeva a scivolare verso il basso, la fermarono con una spilla in modo che non le si scoprissero le cosce. Il pudore era salvo.