La Stampa, 14 luglio 2019
Ritratto di Vittorio Gassman
Un pomeriggio di molti anni fa fui raggiunto da una telefonata inaspettata nel mio ufficio della New York University. Era una giornata primaverile, fresca e con l’aria cristallina, di quelle che ti danno l’impressione di trovarti al centro del mondo, e che ogni opportunità sia a portata di mano. Avevo progetti meno eroici, però, stavo certificando il piano di studi degli allievi, e la voce all’altro capo del telefono era calda, profonda, inconfondibile. «Sono Vittorio Gassman», disse, e poi chiese se fossi io a rispondere: pronunciato da quella voce il mio nome sembrava quello di un condottiero. Rimasi in silenzio, e la voce continuò «mi sente… è ancora lì?». Era troppo bella quell’intonazione, troppo solenne, ed era assurdo che Vittorio Gassman mi stesse cercando a New York. Entrò in quel momento uno studente, e ne approfittai per troncare quello scherzo: «È un’imitazione scadente: sto lavorando, non ho tempo».Riattaccai il telefono tentando di avviare il discorso sui corsi da frequentare, ma il telefono squillò nuovamente.«Ti ho detto che non è il momento!», urlai, e mentre stavo per riattaccare sentii: «Sono Vittorio Gassman, e dovrei parlarle». Rimasi in silenzio, mentre lo studente mi fece cenno che sarebbe tornato. Capii, travolto dall’imbarazzo, che non era affatto uno scherzo: «Mi deve perdonare», dissi, e farfugliai qualche altra cosa, ma l’attore ebbe la finezza di ignorare l’accaduto, limitandosi a chiedere alcune indicazioni per il figlio Jacopo, che aveva deciso di studiare negli Stati Uniti. Mi invitò ad andare a trovarlo in occasione del mio prossimo viaggio in Italia, e così feci, poche settimane dopo.
Incontrai un uomo bellissimo, che mi accolse con un rispetto del tutto immeritato nella sua magnifica casa vicino piazza del Popolo. Aveva a cuore il futuro del figlio, e voleva la garanzia che i nostri corsi fossero ben strutturati, ma quello che mi colpì maggiormente era come mi parlava degli Stati Uniti. Si trattava chiaramente di un rapporto irrisolto, legato al periodo in cui aveva interpretato a Hollywood alcuni film ripudiati: «Ho sempre pensato che in America non vivano, al massimo sopravvivano» mi disse, facendomi ammirare la spettacolare vista sul Pincio. Poi però aggiunse, con un sorriso malinconico, «ma forse non è affatto così, e credo che la bellezza, la cultura e la verità siano patrimonio di ogni luogo. Le nuove generazioni sapranno apprezzare quello che noi non siamo riusciti a vedere».
Uscendo ebbi la netta sensazione di essermi trovato di fronte a un leone d’inverno, combattuto tra la voglia di sbranare il mondo intero e un’invincibile stanchezza esistenziale, che i medici avevano diagnosticato come depressione. Solo in seguito seppi che ne soffriva da molti anni, e non mi sarei mai aspettato che avrebbe deciso di seguire il figlio a New York: era stata un’idea della moglie Diletta, per scuoterlo da quel periodo buio.
Jacopo, che si rivelò un allievo eccellente, ne fu felicissimo, ma dal primo giorno mi resi conto che l’intenzione del padre era anche quella di regolare i conti con un paese che continuava ad affascinarlo. Passò a New York due mesi, ed ebbi il privilegio unico di rappresentare il punto di riferimento quotidiano, il luogo di incrocio tra la sua tradizione e quella americana. Furono giorni indimenticabili, nei quali la cupezza della depressione apparve raramente: Diletta aveva avuto un’intuizione felice, e Vittorio –mi autorizzò subito a dargli del tu, anzi me lo impose- era felice di stare con la moglie e il figlio, e divertito dal pellegrinaggio continuo di personalità che volevano incontrarlo.
Una sera, al suo ingresso in un ristorante dell’Upper West Side, fu accolto da un lunghissimo applauso, e Julian Schnabel venne al nostro tavolo per invitarlo a una festa. Vittorio lo ascoltò con gentilezza, ma poi ci chiese «ma chi è?». Non era né snobismo né arroganza, ma lo stupore, persino divertito, di chi aveva ormai visto tutto. Sfruttando la sua presenza a New York, riuscii a convincere i responsabili del MoMA a organizzare un omaggio nel museo, e fu un trionfo. Scorsese volle incontrarlo, e poi anche Altman, che lo aveva diretto in due film. «Un regista discontinuo, ma certamente di genio», lo definì. Ebbi l’idea di invitare Al Pacino alla proiezione di Profumo di donna, ma il grande attore americano non venne, e ho tuttora la convinzione che fosse in soggezione, consapevole che la sua interpretazione nel remake del film di Risi era inferiore a quella di Vittorio.
Un giorno passò da New York Paolo Virzì per una serie di cinema italiano che curavo nelle università: Vittorio venne a vedere Ovosodo insieme agli studenti, poi volle cenare con tutto il cast, che aveva seguito Paolo a New York. Fu una serata indimenticabile, con gli attori incantati a sentire storie di film leggendari e ad ascoltare qualunque tipo di consiglio. Vittorio fu generoso e istrione, e raccontò di Brancaleone, dei Soliti Ignoti, del Sorpasso, ma poi, all’improvviso, gelò tutti dicendo «ma cari amici, non pensate che il cinema sia in fondo una gran stronzata?». Esplose in una di quelle sue risate irresistibili, contagiando tutti, ma era il primo a sapere che in quel momento stava obbedendo ai demoni della sua depressione. Sapeva di essere nell’inverno inoltrato della sua esistenza, ma ebbi l’impressione che rifiutasse di tirare le somme, che qualcosa di intimo e sincero gli dicesse di lottare, e che l’imperativo di quella fase della vita fosse comprendere il mistero del perché siamo al mondo.
Mi sorprese la tenerezza con cui si divertiva a giocare con i miei figli, ancora bambini, raccontando della sua famiglia, tedesca ed ebrea: voleva che sapessero anche da lui qualcosa della meraviglia dell’Europa. Mi parlò con amore e complicità di Risi e Monicelli, e mi fece impressione che disse di Scola le stesse parole che il regista mi aveva detto su di lui: «è ancora grande, ma non ha più le unghie». Passammo insieme la sua ultima Pasqua, e mi raccontò che una delle più grandi emozioni della sua vita l’aveva provata recitando in piazza San Pietro per Papa Woytila: «Ùno dei pochi che ha veramente cambiato il mondo». Si definiva ateo, ma rifletteva sul fatto che nella Bibbia gli atei non esistono, ma soltanto i credenti e gli idolatri. Poi riprendeva il racconto della recita sul sagrato di San Pietro: «Girarsi e vedere duecentomila persone che ti ascoltano è un’emozione enorme, ma quello che la rende unica è trovarsi lì, a metà tra il sacro e il profano, con la magnificenza di Bernini e Michelangelo, che ti ricordano che Roma è sempre caput mundi».
Durante una passeggiata a Central Park, mentre gli facevo vedere il nido di falchi su un palazzo della quinta avenue, mi disse, improvvisamente «non sono mai stato un’idolatra, di questo sono certo». Prima di partire ne facemmo molte altre di passeggiate, quasi sempre in mezzo ai grattacieli, e mi accorsi che era sempre più a suo agio, in quel luogo che non aveva saputo amare. «Questa energia è entusiasmante», esclamò una volta, «con questa varietà di razze e tradizioni». Il giorno in cui partì mi disse «Sono un privilegiato, credevo di aver compreso tutto nella vita, ma non è così. Forse oggi il cuore del mondo è questa città folle, e l’ho capito solo adesso». Se ne andò nel sonno poche settimane dopo, nella sua Roma, dalla bellezza eterna, come nessuna città al mondo.