La Stampa, 14 luglio 2019
La marcia per liberare gli alieni dall’Area 51
Oltre mezzo milione di persone hanno aderito a una manifestazione convocata su Facebook per prendere d’assalto Area 51, la famigerata base dell’aeronautica americana di cui per anni il Pentagono ha negato l’esistenza e che secondo una delle più longeve teorie della cospirazione custodirebbe i segreti di uno sbarco di alieni avvenuto una sessantina di anni fa nel deserto del Nevada. La breccia di Area 51, prevista per il 20 settembre, nasce per scherzo, come è stato costretto a specificare in un post scriptum l’organizzatore della burla, ma la quantità di persone che si dice pronta finalmente a incontrare gli alieni tenuti nascosti ha messo in allarme i vertici della Difesa e dovrebbe aprire una riflessione sulla nostra vita digitale. Viviamo l’epoca in cui non contano più i dati di fatto né le evidenze scientifiche e per questo ci siamo trasformati un una società che non crede a niente e quindi pronta a credere a tutto. Le bugie, la propaganda e la dietrologia ci sono sempre stati, ma mai come adesso hanno avuto voce e palcoscenico, automazione, velocità di diffusione e scala industriale. Pensate alla bufala su Obama nato in Kenya o ai seguaci della teoria di Q, secondo cui ci sarebbe in corso un complotto dei poteri forti dello Stato contro Trump, fino a quelli che credono che John John Kennedy, il figlio di Jfk scomparso in un incidente aereo nel 1999, viva a Pittsburgh sotto il falso nome di Vincent Fusca e che a breve si rivelerà al mondo come un grande sostenitore di Trump.
Nel nostro piccolo, non ci possiamo lamentare: abbiamo un sottosegretario, e di recente anche un opinionista di un giornale nazionale, convinti che gli americani non siano mai andati sulla Luna e che si tratti solo di una sofisticata produzione televisiva della Cia. Questa è una delle conseguenze meno radiose della rivoluzione digitale, quella che più direttamente inficia il discorso pubblico, indebolisce l’opinione informata e di conseguenza debilita la democrazia adulta: in breve tempo siamo passati dalla post verità alle fake news e poi, in una spirale sempre più grottesca, alle bugie definite «fatti alternativi» fino al brocardo che esprime alla perfezione lo spirito del tempo attuale, quello coniato dall’ex sindaco di New York Rudy Giuliani, secondo cui «truth isn’t truth», la verità non è la verità. Di nuovo, non è soltanto un fenomeno americano: i «questo lo dice lei» sono nostrani, così come i tanti «a mia insaputa» e possiamo anche vantare un sottosegretario a Palazzo Chigi che difende il diritto costituzionale dei cittadini a diffondere fake news. Insomma oggi si può dire qualsiasi cosa, compreso, come è avvenuto durante le elezioni vinte da Trump, che Hillary Clinton organizzasse cene sataniche in un sottoscala di una pizzeria di Washington. Fuori dalla bolla delle tecniche psicometriche e dei software che automatizzano il processo di fabbricazione, divulgazione e infiltrazione delle notizie false, tutto ciò fa sorridere, così come l’appuntamento con gli alieni ad Area 51. Ma dentro la gabbia dei social non si ride, c’è chi ci crede, si mobilita ed è pronto a fare irruzione nel deserto del Nevada o, come è successo, a entrare armato nella pizzeria di Washington. Non si tratta di pochi pazzi isolati, purtroppo: la notizia delle cene sataniche di Hillary è stata twittata dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale di Trump, costretto poi a dimettersi dall’incarico. La stessa bufala è stata twittata anche da un giornalista italiano, poi nominato presidente della Rai.