La Stampa, 14 luglio 2019
Il custode del carcere di Ventotene
«Si chiude! C’è ancora qualcuno dentro?». Le chiavi del portone in mano e l’ultimo sguardo per verificare che nessuno si sia distratto. Con la voce che echeggia in un silenzio surreale, attraversando l’aria trasportata dall’acustica perfetta di un teatro che teatro non è. E tutt’attorno il mare. Santo Stefano: un isolotto vulcanico di 500 metri di diametro a un paio di chilometri da Ventotene. L’accesso è complicato, le ripide scogliere rendono l’approdo appena possibile. Fuggire invece è praticamente impossibile.
Così è stato per quasi due secoli, da quando Ferdinando IV, nel 1795, fa costruire un carcere rimasto attivo fino al 1965. «Sono 170 anni di storia dell’Italia poiché tra queste mura sono finiti soprattutto prigionieri politici. Perdere Santo Stefano significherebbe perdere un pezzo del nostro passato». Cammina lentamente tra i gradini che lui stesso ha ripulito dalle erbacce, si assicura che nessuno oltrepassi le grate in ferro che delimitano le zone messe in sicurezza, con una certa enfasi prepara all’ingresso della prigione, dando un’occhiata intorno perché da un ramo spezzato o una pietra spostata capisce se nella notte qualcuno si è inerpicato di nascosto: Salvatore Schiano di Colella, 50 anni, ogni mattina prende per mano una manciata di turisti e, con un appassionato monologo, li accompagna in un viaggio nel tempo. Dal 15 giugno infatti, dopo due anni di chiusura dettata dal pericolo di crollo, le viste al carcere sono state riaperte, in gestione alla cooperativa "Terra Maris" di Ventotene. Un paio d’ore da trascorrere in una porzione del cortile e la possibilità di visitare qualche cella, in attesa di capire che fine faranno i 70 milioni stanziati con una delibera del Cipe nel 2016, con il vincolo di essere spesi entro il 2020 e che ancora non sono stato utilizzati, nonostante i continui solleciti. Fondi essenziali per garantire un futuro a Santo Stefano, 99 celle su tre piani, un "Panopticon" ispirato alle idee di Jeremy Bentham, realizzato prendendo a modello la planimetria del Teatro San Carlo di Napoli. Come ben spiega Salvatore a chi mette piede sull’isola, narrando storie di vita e di morte, intrecciando le vicende di nomi famosi, come quelli di Sandro Pertini, Luigi Settembrini o Umberto Terracini, a quelle di sconosciuti di cui ripercorre le quotidiane sofferenze.
«Ero un operaio, nel 1989 durante gli scavi romani a Ventotene ho iniziato ad appassionarmi alle radici di queste terre. È stata una folgorazione!». Libri e documenti, archivi e testimonianze. Salvatore inizia a collegare nomi e fatti, numeri di celle e persone. Gli viene così proposto di fare la guida turistica e per lui è l’occasione di scandagliare ogni angolo dell’isola. E di vedere, anno dopo anno, i segni dell’abbandono abbattersi sugli spazi che erano i laboratori tessili o gli uffici del direttore, sui corridoi e sulla cappella al centro di questo strano teatro rovesciato. Ed è sempre lui che va nel piccolo cimitero e ripara le croci delle 47 tombe, molte senza nome. «Non sai quante volte nella mia testa ho parlato con le migliaia di detenuti che sono morti qui dentro – conclude Salvatore –. In 22 anni ho sognato, pensato, rivissuto mille volte le loro vite. La storia di Santo Stefano è proprio la nostra storia»