Corriere della Sera, 14 luglio 2019
1954, Cassola e Bianciardi in miniera
La Maremma vive di dolori profondi. Le sue vene corrono sotto l’evidenza dei rilievi, dall’Amiata all’Argentario, per inseguire filoni di pirite, lignite, cinabro e chilometri di cunicoli scavati per sfruttarli. Altro che pascoli, bonifiche e butteri. La Maremma è segnata da fatica e sangue, da vedove e orfani. Qui, il 4 maggio 1954, alle 8.35 nella miniera di lignite di Ribolla, a 30 chilometri da Grosseto, un’esplosione di grisou uccide tutti i minatori della prima «gita» nella sezione Camorra: 43 vittime. Inutili i primi goffi tentativi di soccorso, fino alle 10 la direzione dei lavori non dà nemmeno l’ordine di abbandonare gli altri cantieri. La tragedia è seconda in Italia solo all’esplosione nella miniera di zolfo Cozzo Disi di Casteltermini, nell’Agrigentino, dove il 4 luglio 1916 morirono 89 solfatari.
Inutile la consapevolezza sulle responsabilità della Montecatini, proprietaria della miniera, per le misure di sicurezza inadeguate (ventilazione inattiva da giorni, come dimostrerà la commissione d’inchiesta governativa). Accusata prima del disastro di voler abbandonare Ribolla. Tra gli articoli più accesi quelli scritti sull’«Avanti» da Luciano Bianciardi e Carlo Cassola. Insegnano al liceo Carducci-Ricasoli di Grosseto, sostengono il Partito d’Azione, cercano di animare il cineclub cittadino. Quando Bianciardi va a dirigere la biblioteca Chelliana di Grosseto, inventa il bibliobus, allestendo una vecchia vettura per portare i libri nei paesi e nelle campagne, con Cassola, invece di aspettare che la gente entri in biblioteca.
L’esplosione di Ribolla scuote le coscienze ed è naturale che siano proprio loro due a cominciare un’inchiesta. Luciano Bianciardi non è ancora lo scrittore de La vita agra o del Lavoro culturale, non è il traduttore di Steinbeck, Bellow, Henry Miller, Faulkner; non è il «profeta cattivo» che lo terrà ai margini di un’élite culturale che lo guarderà sempre con sospetto. E Carlo Cassola, che ha appena vissuto l’impegno nella Resistenza, non è ancora lo scrittore de La ragazza di Bube, con cui vince il Premio Strega nel ’60.
Uniti da una forte tensione etica, i due scrittori non romanzano la tragedia, la raccontano in un’indagine esemplare per abbondanza di ricerche e povertà di aggettivi. Disegnano la storia sociale di queste «colline metallifere», fino ai primi sfruttamenti industriali. Spiegano il lavoro dei minatori. Raccontano le prime lotte sindacali, la lunga e buia stagione del fascismo. L’orrore della strage nazifascista di Niccioleta con 83 morti. Dedicano un capitolo al disastro di Ribolla, dallo sgomento dei primi momenti, ai resoconti dei giornali. Infine scrivono 17 brevi biografie di minatori morti nel disastro. Figli di contadini o minatori, dai 28 ai 76 anni, da Francesco Fondi a Angiolino Sabatini. Nessuno aveva mai raccontato gli ultimi chiamandoli per nome.
I minatori della Maremma nasce così: una serie di articoli, pubblicati da «Nuovi Argomenti» e riuniti per la prima volta in volume nel 1956 dall’editore Laterza. Venne ripubblicato nel 1995 da Hestia con una prefazione di Enzo Jannacci e poi nel 2004 da ExCogita per volontà della figlia di Bianciardi, Luciana. Dopo 63 anni dalla prima edizione, torna in libreria grazie a minimum fax (pagine 257, e 15), alla determinazione dell’editore Daniele Di Gennaro e all’intelligente curiosità di Fabio Stassi, che cura queste riscoperte editoriali e ha scritto le note biobibliografiche su Bianciardi e Cassola. Il volume è arricchito da una postfazione di Antonello Ricci sulla «magnifica attualità» di questo libro: «Il cui suolo-del-testo si ostina a raccontarci cose preziose di un fugace “rubato” nella storia d’Italia: attese e fraintendimenti di un’intera generazione, che sognò di ricostruire il nostro Paese facendolo migliore».