Corriere della Sera, 14 luglio 2019
Perché buttiamo a terra il mozzicone?
Il mercato delle cicche non chiudeva mai. Ed era una faccenda strana: cosa ci venivano a fare nei vialetti polverosi di parco Sempione, si chiedeva negli anni Settanta il cronista Guglielmo Zucconi sulla Domenica del Corriere, tutti quei pensionati chini come mondine nelle risaie? Raccoglievano le cicche. Fumate, pestate, buttate. Solleone o nebbione, i vecchietti li trovavi sempre là: dietro l’Arena, per le aiuole intorno al Castello Sforzesco a raccattare il mozzicone e a scapsulare il filtro dalla carta, per sgranare il tabacco rimasto e infilarlo in un sacchetto. E rivenderlo. E farci due lire. Un piccolo riciclo, quando tutto s’usava e si gettava. Un po’ d’economia, al tempo dello spreco. Poi in Sempione sarebbero arrivati gli anni dei ragazzini a farsi, dei travestiti a darsi, degli immigrati a ritrovarsi, infine quest’epoca di salutisti tutti ad allenarsi: il mercato delle cicche ormai è chiuso da un pezzo. Con la crisi che picchia, i vecchi poveri vanno per mercatini ad aspettare l’ortofrutta scartata e quelli nuovi per cestini ad arraffare ciò che c’è.
Le cicche, no. Non sono sparite. Si sono moltiplicate. Tanto minuscole quanto dannose. Credete che il pianeta soffochi solo nelle bottigliette di pvc? Falso. Pensate che sia tutta una faccenda di discariche o d’ecoballe? Sbagliato. V’hanno raccontato che tanto il mozzicone svanisce presto? Illusi. I rifiuti più numerosi del mondo, e tra i meno smaltibili, non sono le plastiche. Sono quel che resta delle sigarette. Sessanta miliardi al giorno, paglia più paglia meno. Capaci di produrre fino a quattromila sostanze chimiche diverse. Di liberare nell’ambiente l’inquinantissimo acetato di cellulosa, quello che si usa per fare gli occhiali. E infine di vagare anche dieci anni, senza mai disintegrarsi.
Cicca cicca boom. Altro che Sempione, il problema delle cicche e del micro-rifiuto è esploso e s’è fatto globale. Invade giardini e marciapiedi, mari e montagne. Una distesa d’avanzi del fumo e del cibo, di filtri spenti e di gomme masticate, di scontrini appallottolati e di fazzolettini usati e di mille occasioni d’inciviltà. Tutta la Terra è «’na carta sporca e nisciuno se ne ‘mporta» (Pino Daniele), se non per qualche minuto d’indignazione: una spedizione sull’Himalaya ha trovato ciarpame a quota ottomila.
E la foto del pulcino marino che riceve il mozzicone dal becco di mamma e prova a mangiarselo come fosse un pesciolino, postata nei giorni scorsi da un’ambientalista della Florida, due anni fa era già stata preceduta dal sewage surfer dell’Indonesia, il cavalluccio ripreso sott’acqua mentre nuotava con un cotton fioc rosa tenuto stretto nella coda. Le cicche, i chewing gum, i bastoncini per le orecchie e gli oggetti monouso in genere — denuncia Legambiente — tutt’insieme insozzano le nostre spiagge quanto e più di plastica e polistirolo: se ne raccoglie una decina ogni metro di sabbia. Un solo mozzicone avvelena 500 litri d’acqua, dice un ricercatore dell’Università californiana di San Diego che ha studiato il problema, Thomas Novotny, e bastano due mozziconi per uccidere l’80% dei pesci che nuotano in un litro di fiume o di mare. Tonni e salmoni, spesso, mangiano pesci più piccoli che si sono nutriti di filtri. E il veleno gettato dai fumatori ci ritorna nei piatti. A poco servono le cornucopie portatili distribuite in molti stabilimenti balneari o i posacenere prêt-à-porter. E niente fanno le multe, introdotte nel 2016 anche in Italia, che vanno dai 30 ai 500 euro per ogni sporcizia buttata in terra (certi sindaci, a Trento o nel Salernitano, hanno aumentato la sanzione a 500 e mille euro).
La cicca inquina e divide. Secondo una ricerca Bva-Doxa sul rapporto odio (molto)-amore (zero) fra scooteristi e automobilisti, il 77 per cento di chi va in moto teme soprattutto d’incappare nel lancio del mozzicone dall’auto: nello Stato di Washington, abbassare il finestrino e gettare la sigaretta, è un reato. E se a Parigi raccolgono 350 tonnellate di mégot l’anno e ora propongono che lo smaltimento sia a carico dei produttori, la Philip Morris ha capito quanto rischino i suoi affari, chiedendo in un questionario ai fumatori perché se ne freghino dell’ambiente. Risposte: 1) pensavo che i mozziconi fossero biodegradabili; 2) li schiaccio a terra per evitare gli incendi; 3) l’odore del portacenere mi disgusta.
Raccomandava il Mahatma Gandhi che ogni persona fosse la spazzina di se stessa. E ai tempi dell’Unione Sovietica, il premio «Design del popolo» andava a chi sapeva riutilizzare i filtri delle sigarette per farci qualcosa di utile: per esempio, fabbricare gli elettrodi per le batterie delle auto. «Conosco un’artista cilena che li usa per produrre vestiti», racconta Rossano Ercolini, l’ambientalista che ha fatto della cittadina lucchese di Capannori un esempio mondiale del riciclo e che nel 2013 ha ricevuto il Goldman Environmental Prize, una specie di Nobel dell’ambiente: «Ma si tratta d’esperienze piccole e poco ripetibili. Non solo si getta il mozzicone: buttano anche il pacchetto, la plastica che l’avvolge, l’alluminio che c’è nella confezione e potrebbe essere recuperato. È difficile educare a una coscienza ambientale, anche se in questi anni la situazione è molto migliorata. Ed è comunque difficile “rieducare” il fumatore: chi già mette a rischio i propri polmoni, non è che pensi tanto alla pulizia dell’ambiente. C’entra anche una cosa insita nell’uomo, l’aspirazione alla libertà di sbagliare: e chi vuole concedersela più del fumatore? E infine c’è una letteratura, una filmografia che vengono da lontano e ci raccontano personaggi, ci mostrano attori famosi che buttano la cicca senza curarsene».
Chi non fuma è un mostro, giurava Mario Soldati, e «gli stessi intellettuali — dice Ercolini — hanno sempre sottovalutato questi temi. Ricordo certe riunioni d’ambientalisti di vent’anni fa: si parlava d’ecologia e poi s’usciva tutti a fumare, naturalmente buttando il mozzicone dove capitava». Non c’è una piccola Greta svedese che affronti la grande questione, al massimo ne parla ogni tanto l’ecologista californiana Bea Johnson, che insegna al mondo come vivere a rifiuti zero. Nemmeno le ecomafie, sempre pronte allo smaltimento a ogni costo, se ne occupano: «’A munnezza è oro», raccontò il pentito Nunzio Perrella, ma che ci fa la camorra col più rifiutato dei rifiuti? Eppure, l’affare ci sarebbe: una società di Bologna ha da poco brevettato un liquido polimerico, naturale e biodegradabile al 100%, che può sostituire la triacetina dei filtri di sigaretta. Quel che basterebbe a dimezzare i veleni che ammazzano gli umani e ad annullare il micro-ciarpame che soffoca la natura.
Inutile, fatichiamo a convivere con le nostre scorie. L’uomo s’identifica solo in ciò che non butta via, diceva Italo Calvino: ovvero, in quel che sopravvive al bisogno di separarsi da una parte di ciò che era suo, «che sia la spoglia o la crisalide o il limone spremuto del vivere». Forse, non è più quel tempo: «Non si può dare addosso indiscriminatamente a chiunque fumi e butti le cicche — obbietta Ercolini —. Oggi la coscienza è migliorata, anche il tabagista incallito s’allontana se nei dintorni c’è un bambino. E non è frequente vedere un giovane che butta in terra piccoli rifiuti. Certo, le resistenze culturali ci sono sempre...». In fondo, ora zozzo è bello e che cos’è stato lo sdoganamento della cultura del trash e del junk-food, la moda del coattismo e dei supercafoni, se non l’esaltazione del rifiuto come liberazione di se stessi? Senza temere il ridicolo, uno psicoanalista s’è spinto ad appaiare la spazzatura alla cacca della società: nella sua contemplazione e nell’appagamento del produrla, ci sarebbe addirittura qualcosa di freudiano, come accade al rapporto del bambino con le sue deiezioni.
Di cacche&cicche, noi altri siamo produttori mondiali. Eduardo Galeano narrava che nel suo Uruguay di ragazzino — ma quale differenziata! —, non passava manco il camion della spazzatura? Ben prima dei gabbiani sui cassonetti di Roma, viaggiando in Italia, già Goethe descriveva quanto slalomasse tra «rimasugli e rifiuti». Sui nostri marciapiedi ornati d’ogni robaccia, pisciate e mondezze varie, Jacovitti disegnò per una vita. E nel campionato europeo della zozzeria urbana siamo terzi solo alla Romania e alla Grecia. Medaglie di bronzo e facce non da meno: curati nella pulizia personale e trascurati nella nettezza urbana, agghindati come damerini e indifferenti alla differenziata, teniamo tutti famiglia e siamo affetti da un inguaribile «familismo amorale applicato all’igiene — scrive Marinella Correggia nel pamphlet Zero rifiuti —. Il paradigma degli italiani è questo: pulisco fino alla sterilizzazione la mia casa, il mio corpo e quello dei miei figli. E inquino tutto intorno».
Quattro anni fa, è venuto in Italia un bell’uomo abbronzato, la barba un po’ incolta, a pendere sulla camicia una collana fatta di ricariche per cellulare, pile e tappi in polietilene: tutto materiale raccolto in mare. Quell’uomo era il capitano Charles J. Moore, il Cristoforo Colombo dell’inquinamento: nel 1997, mentre se ne andava col suo catamarano per il Pacifico, incappò nella più grande massa galleggiante di rifiuti mai scoperta. La Great Pacific Garbage Patch, estesa quanto il Canada, popolata da pesci e uccelli che di quel pattume si nutrono. Da allora, capitan Moore non fa che avvertire del pericolo: «Stiamo soffocando e non ce ne rendiamo conto», andò a ripetere in sei giorni di conferenze fra Torino e Roma: «Ma per salvarci non bisogna navigare gli oceani. La rivoluzione si può fare cominciando a pulire la porta di casa nostra». Belle parole, che Ercolini ricorda ancora: «Peccato che i media non vennero ad ascoltarlo. E le denunce di Moore passarono quasi inosservate». Poco da stupirsi. Perfino la Costituzione del più bel Paese del mondo non cita mai l’ambiente: qui più che altrove, non vale una cicca.