Corriere della Sera, 14 luglio 2019
Biografia di Sinisa Mihajlovic
Chissà che film sceglierebbe oggi Sinisa, lui che per motivare i suoi giocatori prima delle partite tante volte li ha messi davanti a uno schermo, a guardare «Il gladiatore», «Alexander», «Il volo della Fenice», ma anche «La ricerca della felicità», perché all’uomo i film piacciono tutti, «meno quelli sentimentali che vede mia moglie, anche se poi mi emoziono facilmente e piango spesso». Ieri, quando si è fermato qualche secondo a guardare fisso davanti a sé dopo aver pronunciato la parola «leucemia», con lui abbiamo pianto tutti.
Non che Sinisa Mihajlovic abbia mai avuto bisogno di motivazioni in vita sua, da quando da bambino andava in un campo dove c’erano due porte senza reti e tirava da una parte all’altra fino a sera, e si divideva col fratello un’unica banana (tanto che quando è diventato ricco ha detto alla madre che avrebbe comprato un camion di banane), a quando più grande ha visto la guerra fratricida in casa, le famiglie disgregate, gli amici che si sparavano tra di loro, lo zio, croato, fratello della madre, che voleva «scannare come un porco» suo padre. Tra le macerie di Vukovar è nato il Sinisa guerriero, quello che conoscono tutti, quello che «più stress c’è, più mi piace», perché con quello che ha visto nella vita, cosa volete che siano le ansie del pallone?, che siano vincere da calciatore con Lazio e Inter o salvare da allenatore il Bologna. E quello che ieri ha alzato la testa per guardare dritta negli occhi la malattia e sfidarla come fosse uno dei tanti avversari incontrati e battuti sul campo: «Io la malattia la rispetto, ma vincerò, con la mia tattica, aggredendo e attaccando alto».
Ma ci voleva questa «bella botta», parole sue, perché il mondo potesse apprezzare al meglio un concentrato purissimo di Mihajlovic e di tutte le sue sfumature. Che sono sempre state lì, perché Sinisa ha sempre ammirato Kennedy e letto libri su Gandhi, ha versato tutte le lacrime che aveva quando è stato a Medjugorje e non si è vergognato di raccontare che ogni notte pensa al figlio perso dalla moglie un anno fa. Solo che nel calcio c’è spazio per un luogo comune alla volta: Sinisa è il combattente, e ci mancherebbe, provate a metterlo in dubbio, saranno affari vostri. È un uomo fiero e pieno di dignità, «che non vuole suscitare pietà», ma è anche incredibilmente tenero quando rivela che la cosa più difficile è stata raccontare una bugia ad Arianna («Lei lo sa che sono vent’anni che non ho la febbre»), la moglie incontrata in un ristorante a Roma quando giocava nella Lazio e con la quale è stato amore a prima vista («L’ho guardata e ho pensato: se avessi dei figli con lei, chissà come sarebbero belli»: ne sono venuti cinque, Viktorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nikolas, uno più bello dell’altro, in effetti).
È anche un uomo di una sincerità disarmante, quando racconta «dei due giorni passati in camera a piangere, senza rispondere a nessuno, con tutta la vita che ti passa davanti». Quando, a febbraio, ha compiuto 50 anni, in un’intervista alla Gazzetta dello Sport, la sua vita l’ha riassunta in tre fotogrammi, come se fosse uno dei film che ama: «La prima volta che ho visto Arianna; la nascita dei miei figli; la rincorsa, il sinistro e la palla all’incrocio». Sinisa è anche un uomo dall’ironia rara, perché è facile canzonare gli altri, meno interrompere il medico che parla della leucemia che ti ha colpito cinque giorni fa e mentre quello spiega che stai bene e non hai sintomi, aggiungere «ecco, magari sono un po’ incazzato».
Infine devi essere un uomo generoso, se appena hai finito di raccontare di te, ti preoccupi di mettere tutti sull’avviso e lanciare il più convincente degli appelli a favore della prevenzione: «Io credo che voi pensaste che la persona più lontana dalla malattia potessi essere io: grosso, forte, un atleta. Ho passato l’estate a giocare a padel. Bene, può colpire tutti e in un attimo ti cambia la vita. Per questo la prevenzione è fondamentale».
Già, chissà che film sceglierebbe Sinisa per questo momento. Ci sarebbe qualcuno che lotta e combatte. Ci sarebbero le lacrime. Ci sarebbe la famiglia, «perché io vincerò ma con l’aiuto di chi mi vuole bene». Ci sarebbero le battute e ci sarebbero perle di saggezza, quelle che Sinisa buttava lì in conferenza stampa, per trovare la chiave giusta per parlare ai suoi giocatori. Ci sarebbe l’Italia, il Paese che ora sente casa sua, ma che trova «incattivito, senza più solidarietà, come la mia ex Jugoslavia, per fortuna che voi siete tutti cattolici». Ci sarebbe tutto Sinisa Mihajlovic. Ma soprattutto ci sarebbe un lieto fine. In bocca al lupo, Sinisa.