Corriere della Sera, 14 luglio 2019
Quando vidi due senatori spogliarsi in Aula
In un testo di religione per le scuole medie di molti decenni fa c’era, alla fine di un capitolo, un elenco di domande che si consigliava ai ragazzi di porsi la sera prima di andare a dormire, una specie di esame di coscienza o di bilancio della giornata. Una buona idea, che insegnava come vivere significhi anche riflettere sulla vita, a cominciare dalla propria.
C’era solo una domanda che non capivo: «Sono stato forse immodesto – si suggeriva al ragazzo di chiedersi – nello spogliarmi?». A parte la domanda se ciò valesse pure per le non menzionate ragazze, non riuscivo a comprendere come si potesse essere immodesti nello spogliarsi; immodesti, a mio avviso, si poteva essere semmai nel vestirsi, nell’ostentare abiti lussuosi e pretenziosi, nel fare gli elegantoni e i gagà, disprezzando la modestia nell’abbigliamento che per alcuni può essere in primo luogo una necessità.
Non so se le deputate e le senatrici criticate – come riferiva Fabrizio Caccia in un gustoso e preciso articolo sul Corriere di qualche giorno fa – per l’uso di gonne troppo corte o di abiti troppo scollati durante le sedute parlamentari possano essere definite «immodeste». Non lo credo, perché il Parlamento non è un luogo propizio alla seduzione né all’ostentazione del lusso, visto che nell’Aula e nelle sale delle Commissioni non si è seduti accanto a molti seduttori e ancor meno accanto a poveracci che hanno difficoltà a far quadrare il bilancio e sono costretti a rivoltare i cappotti. La disinvoltura succinta non è un’offesa alla moralità pudibonda, ma può esserlo piuttosto nei confronti del decoro e della severità delle Istituzioni, del laticlavio degli antichi senatori romani. «Senatore, la cravatta» diceva Spadolini a qualcuno, spesso uno dei nuovi arrivati, che non l’aveva nonostante fosse prescritto. L’ho sentito due o tre volte – quando ero senatore durante la breve XII legislatura 1994-96 – ammonire con tono severo e accorato i colleghi con la camicia sbottonata.
L’articolo di Fabrizio Caccia mi ha ricordato un episodio di esibizione cutanea ben più vasta, accaduto in quella legislatura, che coinvolge non donne ma uomini. Durante una seduta del Senato, presieduta dal vicepresidente Pinto, del Partito popolare, due senatori della Lega, per protesta non ricordo più contro cosa, hanno cominciato a spogliarsi, con ordine e con calma, secondo l’iter di questa universale operazione umana. Prima la cravatta, poi giacca camicia e canottiera, infine scarpe e calze, sino a restare in mutande, punto al quale l’operazione si è arrestata. Il presidente Pinto tuonava con gagliardo furore e instancabile ira. Condividevo il suo sdegno dinanzi a quell’indecorosa buffonata, ma mi dispiaceva che si abbandonasse a quella collera, nobile ma forse meno efficace di quanto sarebbe stato l’ignorare quella pantomima, non prenderne atto e non prestarvi attenzione, concentrarsi – o anche fingere di concentrarsi – solo sui problemi dell’ordine del giorno.
È difficile spogliarsi nell’indifferenza generale di un’Aula gremita, deporre ordinatamente i pantaloni e le calze sul sedile vicino; è ancor più difficile decidere cosa fare quando si è rimasti in mutande, due corpi bianchicci fra tanti grigi di giacche e calzoni. Non si può uscire dall’Aula in quell’abbigliamento ridotto, e tantomeno da Palazzo Madama per andare a fare una passeggiata in Piazza Navona. Si può solo, prima o dopo, rivestirsi; operazione quasi sempre tristanzuola anche in altre situazioni più strettamente private. Rimettersi e riabbottonarsi i calzoni, reinfilarsi le calze, forse il momento più faticoso. Nudi alla meta, diceva imperiosamente il motto di un prepotente regime. Ma se in quel momento non c’è nessuna meta, cosa si fa, con i vestiti sotto il braccio?