Nattiv, com’è nato il suo amore per il cinema?
«Quando ero adolescente in Israele non c’erano, come oggi, le piattaforme su cui vedere film. Ricordo la prima volta in cui mio padre mi portò in sala a vedere E.T.L’extraterrestre Non esistevano studi di cinema a livello liceale, ma ho iniziato a vedere tanti film. E il cinema italiano ha avuto una grande influenza su di me, dal punto di vista emotivo. Mia madre era appassionata dei film con Sofia Loren e dei capolavori di Fellini. Io mi sono innamorato di Nuovo cinema Paradiso, l’ho visto cento volte, ogni volta mi sentivo commosso e eccitato. Tra i miei film più amati Il conformista di Bernardo Bertolucci, così maturo e profondo. E poi Gabriele Salvatores, da Mediterraneo a Non ho paura, i diari cinematografici di Nanni Moretti. Siamo vicini geograficamente, israeliani e italiani. E mia madre è in tutto e per tutto una mamma italiana, con il suo calore è il centro della famiglia».
Quando ha deciso che voleva diventare regista?
«A sedici anni. E dopo aver servito nell’esercito, mentre i mei compagni se ne andavano in giro per il mondo io mi sono iscritto alla scuola di cinema a Tel Aviv: era nel mio sangue».
Poi c’è stato il passaggio negli Stati Uniti.
«Quello è avvenuto per amore. Ho incontrato questa bellissima giovane donna in Israele proprio mentre stava per tornare negli Usa. Ci siamo incontrati in un caffè, lei aveva il bagaglio ed era diretta in aeroporto, ma quel volo non lo ha preso. Ci siamo innamorati ed è iniziata una relazione a distanza che è durata cinque anni, finché io ho deciso di trasferirmi a Los Angeles da lei. Ho lasciato tutta la mia vita per amore di una donna».
E poi?
«Ho ricominciato da zero. Nessuno conosceva i film che avevo girato in Israele. Un giorno su un quotidiano vedo le foto di Bryon con e senza tatuaggi. Sono andato a cercarlo, non è stato un incontro facile per nessuno dei due, era il primo (ex) neonazista che incontravo e io ero il primo ebreo che lui incontrava, e incredibilmente siamo diventati amici: ho capito quale lavaggio del cervello viene fatto ai ragazzini, seminando l’odio nei loro cuori. Bryan mi ha raccontato la sua vita, il suo rapporto d’amore "non sapevo neanche perché odiavo così tanto", mi ha dato accesso alle foto, ai video, mi ha aiutato con la sceneggiatura».
Non è stato facile trovare qualcuno che lo producesse.
«Mi dicevano in tanti: Hillary Clinton sta per diventare presidente, non ci sono neo nazi negli States, sono solo un gruppetto, non sono un problema. Poi però il mondo è cambiato. Trump è stato eletto, è esploso il caso di Charlottesville, c’è stato il massacro nella sinagoga e la questione neonazista è diventato di rilevanza nazionale. Intanto però io avevo trovato chi credeva in me: Trudy Styler, con l’appoggio del marito Sting».
Nel frattempo ha girato anche un corto premiato quest’anno con l’Oscar.
«Sì. Mentre cercavo produttori per il lungometraggio ho scoperto, leggendo un articolo, la storia di di un neonazista che insegnava al figlioletto ad uccidere i messicani che sconfinavano. Una notte è rientrato a casa ubriaco e il figlio, scambiandolo per "il nemico" gli ha sparato in fronte».
Com’è stata la notte degli Oscar?
«Pazzesca. Non eravamo i favoriti, siamo andati con leggerezza pensando solo a goderci la serata, ma quando hanno pronunciato il mio nome è cambiato tutto, è stato come vivere battesimo e matrimonio nello stesso giorno».
Perché il tema dei neonazisti è così importante per lei?
«Perché riguarda la mia famiglia, che è stata sterminata durante l’Olocausto in Polonia e Romania. I miei nonni sono sopravvissuti e la loro vendetta, diceva mio nonno, è stata creare la nostra famiglia. E il mio compito è mettere in guardia dal razzismo che sta alzando la testa nelle nostre società: in Europa, in Israele, lo vedo nei confronti degli ebrei di colore e perfino in America, che abbiamo sempre pensato fosse un posto sicuro per tutti».