Prima le dimissioni congelate, oggi quelle definitive. Come mai?
«Dopo soli sei giorni dall’arrivo della notizia della mia iscrizione nel registro degli indagati di Perugia è saltato il presupposto per rimanere in ufficio fino al 20 novembre, come mi aveva chiesto il Csm. Mi faccio da parte perché solo così la titolarità dell’azione disciplinare passa legittimamente nelle mani del procuratore aggiunto».
Professionalmente cosa l’ha messa in crisi?
«Non credo che la mia professionalità di 42 anni possa essere oscurata da questa vicenda, che è ancora in via di chiarimento. E dico subito che giudico legittima e doverosa l’iscrizione di Perugia, ovviamente fatta salva la mia difesa in quella sede».
Si è sentito abbandonato dai suoi colleghi?
«Dopo l’iscrizione nel registro degli indagati è cambiato il clima all’interno del mio ufficio.
L’incriminazione di un Pg è un fatto inedito nella storia della magistratura, e ciò avrebbe dovuto comportare un rinnovato sforzo di tenuta istituzionale, non nel mio interesse soggettivo, ma per la regolare prosecuzione dell’attività stessa dell’ufficio. Questo purtroppo non è avvenuto, nonostante la lealtà di tutti i colleghi impegnati nel caso Palamara fino a quel momento avesse retto. Invece dopo, con condotte e atteggiamenti molteplici, ovviamente non di tutti, si è perfino posta in dubbio la mia onestà professionale fino a ipotizzare, da parte di alcuni, che avessi potuto celare le carte della mia conversazione con Palamara. Così assecondando anche le notizie non vere secondo cui non avrei firmato le azioni disciplinari nei confronti dei colleghi».
Si è sentito tradito?
«Non credo si debba parlare di tradimenti perché sappiamo quello che può vivere una procura in momenti così delicati. Ricordo di essere stato in servizio a Roma quando i colleghi di Milano, per il caso Squillante, hanno perquisito alcuni uffici della procura. Allora ho mantenuto una condotta lineare e trasparente per evitare ogni incomprensione e polemica. Anche oggi mi sarei aspettato meno allarmi e sospetti».
Si è dimesso per difendersi a Perugia dove le contestano la violazione del segreto?
«Ho compiuto un passo indietro anche per rispetto e lealtà verso i colleghi di Perugia e guadagnare la massima libertà nell’esercizio della mia difesa».
Temeva un’azione disciplinare a sua volta?
«No, perché il contenuto della conversazione con Palamara era già a conoscenza del ministro della Giustizia, titolare con me del potere disciplinare. E perché non ho commesso nulla di male e sarò in condizione di chiarire gli equivoci sui miei recenti rapporti con Palamara».
Delle sue dimissioni definitive ha parlato con Mattarella?
«Desidero, per evidenti ragioni istituzionali, non coinvolgere la figura del capo dello Stato in questa vicenda. Né voglio trincerarmi dietro la sua autorevolezza e funzione».
L’incontro con Palamara, lei dice, sarebbe stato casuale. Lo avrebbe trovato sotto casa a sua insaputa. Non poteva evitarlo?
«Questo sarà oggetto delle valutazioni del pm di Perugia, e quindi non devo, non posso e non desidero parlarne».
Ammette almeno di aver sbagliato a parlargli dell’inchiesta?
«Ribadisco che qualsiasi mia dichiarazione sarebbe gravemente inopportuna, ma colgo l’occasione per respingere l’ipotesi di un mio coinvolgimento nell’attività addebitata ai magistrati in sede disciplinare, ivi compreso Palamara».
Ma lei era amico di Palamara...
«Ho avuto e ho comprensione umana per la situazione in cui si trova. Posso immaginare quanto queste vicende lo colpiscano. Lo conosco bene essendo stato con lui fino a settembre 2018 nello stesso Csm».
Lei si era reso conto del mercato delle nomine tra le correnti?
«No, non mi sarei mai immaginato che potesse esistere il contesto che emerge dalle intercettazioni. E ho sempre pensato che le relazioni all’interno del Csm fossero improntate a onestà intellettuale. Abbiamo contestato gli illeciti proprio per consentire che questo "mercato" venisse sottoposto al giudizio della sezione disciplinare».
La sua militanza in Unicost è di vecchissima data. Come avete potuto accettare questo mercato?
«Ho sempre partecipato al dibattito dell’Anm e della mia corrente senza mai ricoprire cariche ma ispirandomi ai valori che troppo spesso vengono solo enunciati. Riconosco le difficoltà e le degenerazioni. Da componente del Csm negli anni 2010-2014 ho spinto per l’esame cronologico delle pratiche e sono stato contro i pacchetti di nomina blindati».
Capi delle procure decisi su input di esponenti politici. Una magistratura in ginocchio.
«Non è ammissibile che la scelta dei procuratori sia imposta dalla politica che si sostituisce al confronto trasparente tra laici e togati all’interno del Csm sulla base di rigidi profili di professionalità».
Ammette che la magistratura si è inferta da sola un colpo durissimo sul piano della credibilità?
«Assolutamente sì. Lo spaccato delle relazioni pericolose tra componenti del Csm, altri magistrati ed esponenti politici determina una forte mancanza di fiducia e, di conseguenza, ha prodotto anche la "furia" verso la figura del Pg della Cassazione».
Cosa pensa dell’ipotesi del sorteggio di Bonafede?
«È uno dei sistemi che si erano ipotizzati. Al di là della sua costituzionalità o meno, credo che la ristrettezza del corpo elettorale abbia fatto raggiungere questo risultato per inerzia essendo falliti finora tutti gli altri sistemi».