Avvenire, 14 luglio 2019
Pakistan, bimbo-schiavo massacrato per un euro
Aveva 11 anni e lavorava come raccoglitore di rifiuti nella città di Faisalabad, in Punjab, tra le aree a maggiore densità cristiana del Pakistan. In un Paese dove ancora, spesso, le linee di emarginazione socio-economica si sovrappongono a quelle religiose, il battezzato Balal Masih svolgeva un’attività faticosa e socialmente degradante. Non era una scelta o un’opzione. Bensì una conseguenza dell’estrema povertà della famiglia, una delle tante ammassate nel quartiere baraccopoli di Rasheed Abad. La madre, Sharefaan, faceva la domestica a ore, il padre, tossicodipendente, era senza impiego.
Il piccolo, così, s’è trovato costretto a integrare il magro bilancio con il proprio lavoro – un impiego estivo dato che per la prima volta la mamma era riuscita a trovare i soldi per iscriverlo alle elementari – nella discarica di Ilfran alias Kalu, musulmano. Quest’ultimo, il suo “padrone”, è diventato anche il suo assassino: due giorni fa, l’uomo ha massacrato Balal con una spranga di ferro, forse dopo – ma gli inquirenti stanno ancora accertandolo – una violenza sessuale. La “colpa” del bambino è stata quella di non potere restituire tutte le 180 rupie, equivalenti a una settimana di lavoro e pari a circa un euro, che aveva chiesto in anticipo qualche giorno prima per far fronte alle necessità familiari.Questo ha scatenato la rabbia del datore di lavoro, che è diventata furia omicida quando il bambino gli avrebbe comunicato la volontà di andarsene dalla discarica. Come racconta l’agenzia AsiaNews, Ifran e suo fratello Akram lo hanno picchiato con ferocia, colpendolo alla testa con spranghe di ferro. Balal è morto per le botte ricevute. Testimone oculare dell’omicidio, la madre Shareefan, accorsa perché non vedeva ritornare il figlio. Le sue urla disperate hanno richiamato l’attenzione dei vicini che hanno allertato la polizia. La donna ha sporto denuncia contro i due uomini, che al momento restano latitanti. «Sono povera ma ho fede in Dio. Lotterò per avere giustizia fino al mio ultimo respiro», ha detto Shareefan. La tragedia di Balal mette ancora una volta in luce la condizione di fragilità – economica e sociale – in cui si trovano le minoranze religiose in Pakistan. Una persecuzioneil più delle volte strisciante che, però, può sfociare in dramma.
È accaduto, nel 2014, ai coniugi cristiani Shahzad e Shama, trucidati e dati alle fiamme in una fornace di mattoni nel 2014. Non si tratta solo di casi isolati, ma episodi di una catena senza fine alimentata dall’impunità di cui spesso godono i carnefici e dalla corruzione. Intere comunità sono, così, attaccate da bande organizzate, fanatiche o mercenarie a cui si propone un pretesto con la facile e sovente precostituita accusa di blasfemia, reato arbitrario che prevede però pene severissime. La persecuzione si trasforma, in genere, in procedimenti legali lunghi e colmi di rischi di ritorsione anche letale, sia che finiscano con una assoluzione, sia che portino a una pena. Come per la “blasfema” Asia Bibi, simbolo involontario di resistenza contro questo stato di cose per un decennio.
La sua assoluzione a fine 2018, seguita dall’espatrio in Canada quest’anno, ha evidenziato l’intreccio tra interessi politici e estremismo religioso. Da luglio 2018, con la vittoria e ascesa alla guida del governo di Imran Khan, personalità in grado di interpretare gli umori del suo Paese e di mediarli con le necessità della politica, dell’economia e dei rapporti internazionali, il Pakistan sembra avere cambiato direzione, emarginando l’islamismo violento in pieno accordo con magistratura e forze armate. Restano, però, gli immensi problemi e le contraddizioni di una nazione di 210 milioni di abitanti, dove ampie aree di arretratezza sociale incentivano sopraffazione, discriminazione e la diffusione del fanatismo religioso.