Robinson, 13 luglio 2019
Guida all’arte senza autore
Esiste un’arte involontaria, un’arte che è tale non per volontà di un artista bensì per il suo stesso modo d’accadere? Una sorta di opera che non è firmata da qualcuno, ma prodotta dall’azione della natura, dal suo interagire con quello che fa, o ha fatto, l’uomo? Secondo Gilles Clément, il paesaggista che con la sua idea di Terzo Paesaggio ha rivoluzionato il modo di pensare le forme naturali, i giardini, gli spazi abbandonati delle metropoli, i campi deserti delle periferie, i marciapiedi e gli altri luoghi interstiziali in cui ci imbattiamo ogni giorno, senza che ce ne accorgiamo questa arte c’è, esiste. Basta guardarla. Clément ci espone il suo modo di osservare la presenza delle piante, del mondo vegetale, intorno a noi, dando vita a una sorta di” genialità naturale”, che sfugge ai modi tradizionali d’organizzare gli spazi verdi nelle città, ordinati e disciplinati secondo una sorta di cartesianesimo vegetale, che ha il suo culmine nel prato all’inglese, nel green rasato dalle macchine tosaerba. In Breve trattato sull’arte involontaria ( Quodlibet) ci guida attraverso questi spazi che ci sono, basta saperli vedere. Attraverso una classificazione – neppure Clément rinuncia alla classificazione, sia pure bizzarra ed eccentrica – che si cadenza in Voli, Accumuli, Isole, Costruzioni, Erosioni, Installazioni, Tracce, Apparizioni, il paesaggista francese ci fa attraversare luoghi marginali, spazi remoti oppure molto conosciuti, deserti e spiagge, risaie e dune, orti e pietraie, scompartimenti di treni e campi di girasoli. Disegna e fotografa, prende appunti e racconta quello che ha visto di questa arte non premeditata che galleggia sulla superficie delle cose. Gli ispiratori invisibili di questa passeggiata tra i vari continenti sono Deleuze & Guattari, Michel Serres, Jacques Derrida, che hanno disarticolato il pensiero filosofico razionalista per introdurre nuove visioni del mondo sensibile e degli oggetti. Si tratta di un’arte senza gravità, scrive l’autore, perché «la società non gli dà peso».
Senza statuto, senza discorso, senza obbligo, arte disarmata. Si sottrae alla politica, e appena esposta subito scompare. Non ha nessuna consistenza e probabilmente nessuna utilità. Solo esiste, come accade a una fila di sacchetti di plastica, che fungono da spaventapasseri in una risaia cinese, o agli accumuli di pietre a Cradle Mountain in Tasmania. Ci sono i silos dei cementifici e le cataste ordinate di legna nel Limosino in Francia. Basta alzare gli occhi verso l’alto nella Vecchia Delhi e si coglierà l’intrico dei fili della luce, dei telefoni e delle mille linee aeree che si trovano lassù, sopra la nostra testa, o cogliere la forma sventagliata di un cancello forzato in un quartiere periferico di Parigi.
L’operazione che Clément compie è quella di restituire una forma all’informe, di trovare un senso ai mille segni che si trovano intorno a noi, così come hanno fatto prima di lui le avanguardie novecentesche. Da questo punto di vista non è qualcosa di nuovo; la novità consiste nel modo attraverso cui il paesaggista registra queste presenze” artistiche” nello spazio post- urbano e post- industriale, in cui siamo immersi. L’autore compie un’operazione che ricorda il modo con cui Piranesi guardò le rovine delle antichità romane nel Settecento, quando la modernità non era ancora sorta e pienamente dispiegata, e l’antico non ancora affidato agli archivi della Storia. Era quella dell’incisore un’episteme molto incerta e artisticamente minore, come le figurine dei suoi uomini che si muovono tra le rovine. Clément sta dando forma a qualcosa del genere, non solo attraverso la raffigurazione, come in questo libro, ma mediante un’azione virtuosa sul paesaggio e sui suoi interstizi. La sua cartografia visiva e mentale prende in considerazione anche i rifiuti, i sacchetti di plastica, ad esempio, di cui traccia il percorso improbabile. Un modo virtuoso di guardare il mondo attorno, un esercizio zen di comprensione virtuosa dell’incomprensibile.