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 2019  luglio 14 Domenica calendario

Il Sud è una fede. «Devi crederci»

Un mondo dall’identità forte, molto connotata, che si nutre di tradizioni ancestrali e bellezze naturali, ma che fa i conti con una modernizzazione problematica, un rapporto non risolto con le istituzioni, una non sempre solida autocoscienza delle proprie capacità. Al netto delle differenze tra ciascun autore, delle scelte linguistiche, dei molteplici generi – romanzi storici e saghe familiari, gialli, narrazioni di denuncia e impegno civile, racconti realistici oppure onirici – è l’impressione del Mezzogiorno che emerge nei romanzi di scrittori meridionali usciti in Italia negli ultimi mesi. «La Lettura» ne discute con undici tra autori e studiosi, scegliendo per ora di limitare il campo a Sicilia, Calabria, Basilicata e Puglia.
Saghe familiariDa metà maggio ai primi posti nelle classifiche dei libri più venduti c’è Stefania Auci, trapanese di nascita, palermitana d’adozione. Il suo I leoni di Sicilia (Editrice Nord, in programma un secondo volume nel 2020) narra l’ascesa dei Florio, emigrati da Bagnara Calabra (Reggio Calabria) a Palermo nel 1799 e diventati una famiglia d’imprenditori tra le più ricche e potenti dell’isola, alla guida di un impero che si estese dalle spezie allo zolfo, al vino, alla navigazione. Il romanzo si era già preannunciato come un caso all’ultima fiera del libro di Francoforte ed era stato venduto negli Stati Uniti, in Germania, Francia, Spagna, Olanda, oltre che opzionato per una serie tv, ancora prima della pubblicazione in Italia lo scorso 6 maggio. Effetto Elena Ferrante, si era pensato, con gli editori internazionali a caccia di una saga meridionale che replicasse i risultati de «L’amica geniale». Poi il successo in Italia, dove, complice la spinta del mercato, pur senza eguagliare le vendite di Auci, sono numerose le uscite di romanzi ascrivibili al genere. Tra i più recenti: La luce è làdi Agata Bazzi (Mondadori), ambientato in Sicilia, mentre in Puglia si svolgono La malalegna di Rosa Ventrella (Mondadori) e Gente del Sud di Raffaello Mastrolonardo (tre60). Oppure, di qualche anno fa, le storie di Giuseppina Torregrossa (ad esempio Il figlio maschio, Rizzoli, 2015). 
«I grandi romanzi familiari che si snodano attraverso più generazioni, come I Buddenbrook di Thomas Mann e I Viceré di Federico De Roberto, nascono tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Ma nelle attuali saghe vedo soprattutto un rapporto osmotico con la serialità televisiva, alla quale le lunghe trame dense di protagonisti sono molto vicine», osserva Raffaele Donnarumma, docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Pisa. «Spesso – nota lo studioso – le autrici sono donne. Dietro, pur con tutti i distinguo, ci sono Elsa Morante e la sua narrazione della grande Storia attraverso la storia dei singoli». Altro aspetto è la caratterizzazione regionale: «In tempi di globalizzazione, ancorarsi al locale è una forma di reazione. In parte una mossa difensiva dettata dalla paura, come accade nella società. In parte, semplicemente, consente una tipizzazione che funziona di più, il cosiddetto glocal. E il Sud, che ha tratti molto connotati, si presta benissimo». 
«Mi piace raccontare la Storia attraverso la storia dei singoli», conferma Auci. «Nel primo romanzo sui Florio, tratteggio il Sud tra il 1799 e il 1868: fortemente arretrato eppure desideroso di futuro, di sperimentazione. Una possibilità data però solo alla borghesia illuminata, alle élite. Già allora – prosegue – si poteva percepire la lontananza tra il governo centrale e la popolazione. Già allora lanciarsi in un’impresa economica era vissuto con timore». Per la scrittrice un’eredità che pesa ancora oggi: «Chi gestisce un’impresa deve confrontarsi con i lacci della burocrazia, sente che lo Stato è un ostacolo, non un aiuto. Oppure che adotta un approccio assistenzialistico piuttosto che favorire lo sviluppo». Il che concorre a un altro problema ancora aperto, quello dell’autocoscienza: «Viviamo una specie di pregiudizio d’inferiorità. Siamo convinti che al Nord siano più bravi, mentre anche qui le qualità personali ci sono». 
A Palermo, dove la sua autrice è nata, si svolge pure, tra il 1875 e il 1958, La luce è là di Agata Bazzi: «Narro la città dopo l’Unità d’Italia, quando diventò un centro industriale. C’erano ancora i Florio, altre famiglie arrivarono dall’estero: inglesi, francesi, istriane». Dalla Germania venivano gli Ahrens, ebrei, che più tardi sarebbero stati vittime delle leggi razziali. Bazzi ne è discendente, ma il libro è un romanzo, non un memoir. «Lo hanno definito ottimista – commenta —: è vero infatti che ancora oggi il Sud è compromesso, ma bisogna credere nel riscatto, che può avvenire attraverso il lavoro onesto».
Rosa Ventrella, nata a Bari, da vent’anni vive a Cremona e nei romanzi narra «le donne del Sud». Due sorelle figlie di braccianti sono le protagoniste de La malalegna, ambientato a Copertino (Lecce) ai tempi del fascismo e delle lotte dei contadini per strappare le terre ai padroni. «Raccontare la storia è anche un modo di parlare del presente – osserva l’autrice —: nei fatti del libro affondano radici che arrivano a oggi. I contadini pugliesi, ad esempio, furono tra gli ultimi a ricevere la terra ed è come se la popolazione, fin da allora, si sia abituata a essere dimenticata dalle istituzioni».
Puglia nera Gotico, violento, contemporaneo è il Sud di Omar Di Monopoli, nato a Bologna e poi tornato alla terra d’origine, la Puglia (ora vive a Manduria, Taranto). Come nero è il Salento della giallista Gabriella Genisi, che ha la particolarità di mettere al centro investigatrici donne (Pizzica amara, Rizzoli, è uscito ad aprile). «Negli ultimi vent’anni – osserva Di Monopoli – la narrazione della nostra regione è stata talora edulcorata. Io sollevo la polvere da sotto il tappeto. Racconto la Sacra Corona Unita, una mafia rimasta nei paeselli che opera con logiche da Far West, l’avvelenamento dell’Ilva, lo sfruttamento degli extracomunitari». Dal punto di vista sociale, Di Monopoli parla di un mondo «ancora adolescente, che non riesce ad amministrarsi da sé: aspettiamo chi ci trascini fuori dalla melma mentre dovremmo essere noi ad aver voglia di alzare la testa». Nei suoi romanzi dunque (il più recente: Nella perfida terra di Dio, Adelphi, 2017) il quadro è fosco, ma fa da contraltare la sublimità del paesaggio. «Credo nella disordinata bellezza di questi posti – spiega l’autore —, una bellezza naturale che nonostante tutto sopravvive, come quella delle incredibili Mura messapiche di Manduria. La speranza è in questo caos meraviglioso: ce la farà chi saprà cavalcarlo e metterlo a frutto, è un valore che richiede impegno». 
Di Monopoli si muove all’interno del noir e del western, ma ibridandolo. «Lo fa inserendo nel genere un originale tratto espressionistico e insieme riflessivo», spiega Antonio Rosario Daniele, docente di Didattica della lingua italiana all’Università di Foggia. Lo studioso si spinge ancora più indietro nel viaggio tra chi ha raccontato la Puglia. Cita Raffaele Nigro, nato a Melfi (Potenza) e pugliese d’adozione. Tra i titoli più recenti sulla regione, c’è l’itinerario antropologico Viaggio in Puglia, Laterza, 2009 – da cui emerge il ritratto di una terra dai «valori e ritmi tradizionali» che convivono con le «ansie di ammodernamento» —, mentre i romanzi del passato sono piuttosto ascrivibili al filone del cosiddetto realismo magico meridionale con risvolti fiabeschi. «Imprescindibile – prosegue Daniele – è anche Nicola Lagioia. Nel suo La ferocia (Einaudi, 2014), ambientato tra i palazzinari, nel dramma di una Bari affaristica e rovinata, lavora sulla materia del racconto come pochi fanno oggi. Scava nelle parole. Ed è come se la ferocia diventasse necessaria anche al livello della lingua. Ancora Bari, con i suoi vicoli e misteri, è lo scenario di Gianrico Carofiglio, al quale dobbiamo pure, al di là del thriller, un prezioso lavoro sulla lingua: Con parole precise (Laterza, 2015), con quell’intento civile che alla nostra terra, bella, ma a volte indocile, serve tanto». 
Il docente evoca poi Mario Desiati, in particolare il suo Ternitti (l’eternit, Mondadori, 2011), con il tema del lavoro che uccide e una Puglia «terra di pietre e di asprezza». E infine Alessandro Leogrande, morto nel 2017 a 40 anni, e i suoi reportage narrativi: «Ci manca il suo giudizio, ci manca la sua parola. Ha raccontato il caporalato, l’Ilva, l’Adriatico orientale, i migranti. I l naufragio. Morte nel Mediterraneo (Feltrinelli, 2011) andrebbe letto nelle scuole». 
Calabria sospesaUna Calabria di miti e ritualità arcaiche che si combinano con la modernità, generando una sorta di tempo sospeso, emerge nei romanzi di uno scrittore dell’area di Catanzaro, che vive a Milano dal 1996: Domenico Dara, autore di Breve trattato sulle coincidenze e Appunti di meccanica celeste (2014 e 2016, Nutrimenti). Entrambi i libri sono ambientati a Girifalco, il paese dove l’autore è nato e cresciuto; entrambi corali; entrambi avvolti in un’atmosfera da favola magico-realistica. «La Calabria – spiega Dara – ha un problema di narrazione, quasi sempre la si lega alla ’ndrangheta, ma c’è dell’altro: la cultura che ci ha attraversato nei secoli, le associazioni di chi oggi s’impegna per cambiare le cose». 
Tra i conterranei, l’autore cita Giuseppe Occhiato, scomparso nel 2010 e autore di Oga Magoga (Progetto 2000), opera mondo di oltre mille pagine, elegia della tradizione popolare calabrese e del mondo contadino, in una lingua che mescola italiano e dialetto. «Quando si parla di letteratura calabrese – nota Dara – ci si ferma a Corrado Alvaro. Ma anche in questo caso c’è dell’ altro». Nomina anche Carmine Abate e Mimmo Gangemi (tra i temi affrontati da entrambi c’è la migrazione). Poi Gioacchino Criaco, che ha scelto il noir per narrare condizioni di diseguaglianza al limite della civiltà, che poi sfociano nel crimine. Un esempio è Anime nere (Rubbettino, 2008): «Ritratto di una Calabria di malavita – sottolinea Dara —, che tuttavia non è mai scopo della narrazione ma strumento per parlare degli uomini».
Sicilia contraddittoriaLa commistione di contemporaneo e arcaico, di cui si è accennato per Dara, attraversa in generale, in modo complesso e contraddittorio, la letteratura di tutto il Meridione. «La modernità – nota lo scrittore e drammaturgo palermitano Roberto Alajmo – crea desideri che la realtà, sempre indietro, non riesce ad esaudire». 
Nel ritratto della Sicilia, «affascinante e canagliesco», che l’autore ha cercato di dare nelle sue numerose opere (interessante l’esplorazione del familismo amorale su cui prolifera la mentalità mafiosa), una sfida – spiega – è stato «evitare i cliché, l’autoesotismo, il compiacimento per l’eccentricità della nostra terra. Per questo nei miei libri, anche se tutto rimanda alla Sicilia e a Palermo, cerco di nominarli il meno possibile». Alajmo, analizza Giuseppe Traina, docente di Letteratura italiana all’Università di Catania, «non sceglie la denuncia diretta ma il discorso metaforico, così come fa un altro siciliano, Giorgio Vasta. Più di recente, inoltre, ne L’estate del ’78  (Sellerio, 2018), Alajmo si è anche valorosamente confrontato con i migliori modelli di autofiction». 
A proposito di generi e di Sicilia, non si può prescindere dal giallo e da Andrea Camilleri. «Ma certo ci sono autori – spiega Traina – che hanno comunque trovato la loro strada. Penso ai raffinatissimi noir di Santo Piazzese, ambientati a Palermo, o al giallo comico di Gian Mauro Costa o di Gaetano Savatteri. Merita attenzione anche il saggio di quest’ultimo, Non c’è più la Sicilia di una volta (Laterza, 2017) nel quale cerca di far cadere i luoghi comuni. Lo anima, a proposito di dialettica tra antico e nuovo, una visione ottimistica secondo cui l’isola ha tanti elementi di modernità sui quali fondare una nuova visione di sé». Una dialettica che investe pure i romanzi storici: se da un lato il racconto del passato gode di buona fortuna, è come se a un certo livello qualitativo, questo potesse avvenire solo con una simultanea messa in discussione del genere. Ne La ragazza di Marsiglia (Sellerio, 2018), sull’unica donna che partecipò all’impresa dei Mille, l’autrice Maria Attanasio rinverdisce una tradizione «grazie soprattutto – nota Traina – al disvelamento del lavoro di documentazione, mostrato in itinere». Mentre la catanese Emanuela Abbadessa (È da lì che viene la luce, Piemme, 2019, il titolo più recente) «si muove tra i temi romantici ma nel modo smaliziato di una lettrice novecentesca, con citazioni e strizzatine d’occhio al lettore. Una decostruzione dietro cui c’è la lezione di Vincenzo Consolo e Leonardo Sciascia». 
C’è poi la strada, precisa Traina, di «chi va del tutto oltre i generi codificati, e oltre la Sicilia, scegliendo di non ambientare lì i romanzi e di liberarsi di una tradizione ingombrante. Tra i nomi: Viola Di Grado, Vanessa Ambrosecchio, Elvira Seminara, Carlo Brugnone». 
Basilicata e sviluppoIl passaggio da una società arcaica a una che si modernizza, con un contrasto e una contrapposizione più nette, è pure al centro dei romanzi di Mariolina Venezia, nata a Matera, ora a Roma (con una casa a Istanbul). La questione è centrale fin da Mille anni che sto qui, premio Campiello 2007, tradotto in venti Paesi. Una saga familiare scritta oltre dieci anni fa, a ulteriore prova della persistenza del genere (pur con le opportune distanze, a partire dall’intervallo narrativo più breve, è comunque suggestivo notare che La straniera di Claudia Durastanti, La nave di Teseo, finalista allo Strega 2019, è una storia familiare e contiene un ritorno in Basilicata. Così come Addio fantasmi di Nadia Terranova, Einaudi Stile libero, anche lei nella cinquina, prevede un ritorno a Messina e lo scavo dentro una famiglia). Tornando a Mariolina Venezia, è peculiare che dal 2009, dopo Mille anni che sto qui, la dialettica arcaico-contemporaneo si declini all’interno del giallo. Un giallo dalle sfumature comiche. Rione Serra Venerdì (Einaudi, 2018) è il romanzo più recente, mentre a ottobre uscirà Via del riscatto: al centro la speculazione edilizia e la mercificazione turistica del territorio. Il contrasto tra una cultura millenaria di ospitalità e solidarietà contro l’edonismo e la corsa ai beni di consumo, le emergenze legate al petrolio e lo stoccaggio delle scorie nucleari, sono tra i temi della scrittrice. 
Insistere su una specie di arcaica e locale età dell’oro non rischia tuttavia di essere letta come una posizione contro il progresso o che genera ulteriore chiusura in tempi di muri? «L’elemento arcaico torna nei romanzi meridionali perché è realmente radicato nelle nostre terre e si è conservato fino a noi. Questo è un fatto – risponde Venezia —: noi siamo stati la Magna Grecia». Rivendicare una tradizione forte per la scrittrice non è di per sé un pericolo: «Tutti siamo esseri umani, ma ognuno ha la sua specificità. Io mi sento più vicina ad Atene o alla Turchia che non a Milano. Un’identità forte può aiutare a non sentirsi minacciati dalla diversità, ad essere più empatici verso chi ha un’altra cultura». Quanto al progresso, «il Nord per me non è un modello – sostiene Venezia —. Piuttosto, ricollegarsi alla propria identità può aiutare a creare forme di sviluppo più coerenti. Un esempio semplice: puntare di più sulla valorizzazione dei prodotti locali che non su industrie importate».
Il mare, le migrazioniIl Mediterraneo crogiolo di civiltà, ma divenuto un’immensa tomba senza nome, non poteva non diventare un tema, un’ossessione della coscienza, tra chi racconta il Sud. Il palermitano Davide Enia, scrittore e drammaturgo, ha pubblicato Appunti per un naufragio (Sellerio, 2017) e ne ha tratto per il teatro L’abisso, su Lampedusa. Da tempo sulle migrazioni riflette Evelina Santagelo, anche lei palermitana, edita da Einaudi. Ne Il giorno degli orsi volanti (2005) usò il meraviglioso per narrare gli arrivi dall’Est. «Due anni dopo – racconta – ho visto con i miei occhi ciò che resta di un barcone, le “presenze assenti” di chi è stato a bordo». Il 2008 è l’anno di Senzaterra (Einaudi), nel quale lo strumento narrativo è l’iperrealismo. «Ma per dieci anni – prosegue l’autrice – il tema dello sbarco ha continuato a lavorare dentro di me». In mezzo ci sono altri libri, poi nel 2018 Da un altro mondo: tra arrivi di clandestini e pattuglie della polizia, il romanzo disegna schiere spettrali di «bambini viventi» che infestano i sonni degli uomini; una madre belga che perde il figlio nella galassia online di neonazisti e jihadisti; un ragazzino forse siriano arrivato in Europa e rimasto solo, in compagnia di un trolley rosso. La via narrativa diventa il fantastico. «Oggi – spiega Santangelo – il confine tra paure reali e indotte è labile, allora è come se, per essere realisti, servisse raccontare i fantasmi. La letteratura può immaginare ciò che già c’è ma non si vede. Un giorno con quei fantasmi faremo i conti. I viaggi della Memoria saranno nel Mediterraneo». Nonostante tutto Da un altro mondo è un romanzo di amore, di riparazione. «Ho unito destini diversi sulle sponde del Mediterraneo. È lì che dobbiamo rifondare l’idea di civiltà e recuperare l’universalità del diritto scaturita dopo due guerre mondiali». 
Un ruolo importante può giocare proprio il Sud. «I sindaci meridionali, oltre a Beppe Sala a Milano, stanno combattendo per far prevalere l’accoglienza. Le risposte del Sud – nota Agata Bazzi – sono più aperte». «A Lampedusa – conferma Santangelo – le barche arrivano e c’è una rete enorme che lavora nell’inclusione. Al di là della politica, si vede la tenuta del Paese reale. Ho fiducia soprattutto nei giovani, pensiamo alla loro battaglia per il pianeta». Fatti concreti, ma anche il saper tenere alta la guardia. «Negli anni Novanta – sottolinea Santangelo – in Sicilia abbiamo avuto le stragi. Io stessa lasciai Palermo e fu dolorosissimo. I siciliani però hanno combattuto contro la mafia. E per i diritti. Questo fa sì che sappiamo cosa siano e che non li diamo per scontati in nessun ambito. In più, veniamo da un’isola: sappiamo cosa vuol dire sentirsi stranieri quando si va nel continente». In generale, conclude, «il Meridione si è a lungo definito per negazione, fino a che ci siamo chiesti: “Chi siamo?”. La risposta l’abbiamo trovata guardando il mare. Siamo arabi, normanni, bizantini, figli di tutte le civiltà che si sono succedute. La risposta, dunque, è il crogiolo. E forse quella stessa domanda se la dovrebbero porre oggi l’Italia e tutta l’Europa».