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 2019  luglio 14 Domenica calendario

Dov’è finito il Sud (Amedeo Lepore e Nicola Rossi)

Il Sud è stato abbandonato? Secondo Antonio Accetturo e Guido de Blasio, autori del saggio Morire di aiuti (Ibl Libri), non è così: a loro avviso negli ultimi anni il Mezzogiorno ha semmai ricevuto un sostegno distorto, che ha recato più danni che benefici. A partire da questa tesi abbiamo chiamato a discutere gli studiosi di economia Amedeo Lepore e Nicola Rossi. Quest’ultimo firma la prefazione del libro. 
AMEDEO LEPORE — Gli autori denunciano giustamente politiche a pioggia, frammentarie, assistenziali, con un cattivo impiego delle risorse. Ma l’analisi di Accetturo e de Blasio è legata una stagione precisa, tra gli anni Novanta e il primo decennio di questo secolo, segnata da progetti di sviluppo locali e da un certo sudismo rivendicazionista. Quindi il giudizio del libro è condivisibile, ma non va generalizzato: più che Morire di aiuti, io lo avrei intitolato Morire di localismo. 
NICOLA ROSSI — Senza dubbio lo studio di Accetturo e de Blasio riguarda il periodo indicato da Lepore, ma investe politiche per il Mezzogiorno che si caratterizzano per una straordinaria continuità da almeno 25 anni. Le stesse linee sono state seguite da governi di ogni colore. Si è formata e radicata, con il Dipartimento per le politiche di coesione e l’Agenzia per la coesione, una burocrazia che gestisce molto potere. L’unica soluzione ora è azzerare una stagione che non solo ha prodotto esiti nulli sul piano dello sviluppo, ma ha generato gravi effetti negativi. Ha incentivato la corruzione, ha favorito la contiguità con le mafie e soprattutto ha funzionato da canale di selezione perversa della classe dirigente. Al Sud si viene eletti perché si portano i soldi sul territorio e questo ha abbassato il livello del ceto politico. Non a caso, prima di Giuseppe Conte, erano decenni che il Mezzogiorno non esprimeva un capo del governo. 

Oltre a fare tabula rasa del passato, come ci si deve muovere per rilanciare il Sud?
NICOLA ROSSI — Un primo punto è dare al contratto collettivo di lavoro un contenuto solo normativo, agganciando strettamente i salari alla produttività nelle diverse situazioni, per evitare che migliaia di giovani meridionali debbano emigrare ogni anno per trovare un impiego. Inoltre tutte le risorse destinate al Mezzogiorno, che non sono poche, devono essere concentrate su un solo obiettivo, cioè la realizzazione di infrastrutture. Un terzo punto è battersi in Europa per consentire al Sud di avere un trattamento diverso, anche sotto il profilo fiscale. A Bruxelles dovremmo reclamare il commissario alle politiche di coesione, per correggere gli errori che noi stessi abbiamo contribuito a determinare. 
AMEDEO LEPORE — La continuità denunciata da Rossi in realtà non è così assoluta. C’è stato di recente un breve periodo, tra il 2015 e il 2017, in cui il Mezzogiorno è cresciuto addirittura più del Nord, 3,7 contro 3,3 per cento nel triennio, anche se poi la ripresa si è interrotta nella seconda metà del 2018. Inoltre è vero, come scrivono Accetturo e de Blasio, che la qualità degli interventi conta assai più della quantità delle risorse. Ma se guardiamo alla spesa pubblica allargata, al Sud va il 28,3 per cento del totale, mentre vi risiede il 34,3 per cento della popolazione. Non voglio sollevare lamentele, ma certo per ragionare correttamente bisogna partire dai dati di fatto. Sul tema del lavoro, secondo me non si tratta tanto di differenziare i salari tra Nord e Sud, quanto di operare per un aumento della produttività nel Mezzogiorno. Non mi convince inoltre l’idea di puntare tutto sulle infrastrutture (strade, acquedotti, ferrovie), che sono importanti, ma producono effetti a lungo termine: servono anche investimenti produttivi di altro genere, soprattutto in un’epoca di crescente smaterializzazione dell’economia. Concordo invece sulla necessità di tagliare la burocrazia e semplificare le politiche per il Sud. 
NICOLA ROSSI — Secondo me, guardare al Mezzogiorno in un arco di due o tre anni non aiuta molto, anche perché in quelle regioni del Paese si parte da livelli così bassi che rimbalzi verso l’alto sono sempre possibili. Il dato di fondo è che da 25 anni nel Sud non si batte chiodo e le distanze dal Nord restano inalterate, anzi aumentano. Ma il vero interrogativo è: perché nessuno nella classe dirigente ha sollevato il problema di un simile fallimento? Semplice, perché quell’intervento pubblico inefficace è il bengodi del ceto politico meridionale, che infatti mostra di apprezzarlo a destra come a sinistra. È vero poi che il Sud ha ricevuto risorse inferiori rispetto alla sua quota di popolazione. Ma, per quanto sia sgradevole dirlo, la spesa pubblica è un bene di lusso. E non è ragionevole comparare situazioni a diversi livelli di sviluppo chiedendo che abbiano la stessa quota di risorse. Il guaio del Sud non è la scarsità dei trasferimenti, ma il fatto che sono stati gestiti in modo indecente.
Tuttavia, in una logica di solidarietà nazionale, chi ha di più dovrebbe aiutare chi è rimasto indietro.
NICOLA ROSSI — Le risorse destinate al Sud nei primi tempi della Cassa per il Mezzogiorno, creata nel 1950, erano nettamente inferiori alle somme che ha ricevuto negli ultimi anni. Eppure quello è stato l’unico periodo in cui il divario con il Nord s’è ridotto. La quantità degli investimenti conta poco. La Cassa di allora aveva personale di elevato livello tecnico, godeva di una ragionevole indipendenza dalla politica ed era guidata da dirigenti di grande capacità. Ciò spiega i suoi successi, che le permettevano anche di vendere progetti nel mondo.
AMEDEO LEPORE — Alcuni dati che riguardano le risorse. Nel 2015 la spesa corrente pro capite al Sud è stata inferiore di 29 punti percentuali rispetto al Nord. Quella per formazione, cultura e ricerca nel Mezzogiorno non è arrivata al 64 per cento della quota andata al Settentrione; quella per lavoro e previdenza al 77. Se i servizi pubblici nelle regioni meridionali sono inefficienti dipende anche da questo. Ancora: nel triennio 2002-04 le agevolazioni per il Sud ammontavano a 6,1 miliardi, mentre nel periodo 2014-16 si sono fermate a 1,7. Nel Centro-Nord sono diminuite molto meno, da 4 a 2,2 miliardi. Quindi la quota del Mezzogiorno è scesa dal 60,6 al 44,3 per cento. Da ricordare poi che la domanda del Sud per consumi e investimenti attiva circa il 14 per cento del Pil del Centro-Nord, 186 miliardi nel 2017.

Il Mezzogiorno ha ragione di sentirsi penalizzato?
AMEDEO LEPORE — Sono cifre eloquenti, ma non vanno usate per avanzare recriminazioni su base territoriale. Tutto il contrario. Al Sud serve una visione nazionale ed europea per inserirsi nella globalizzazione. Proprio come all’epoca della Cassa per il Mezzogiorno, quando si realizzò una triplice convergenza: l’Europa ridusse le distanze economiche rispetto agli Stati Uniti, l’Italia lo fece rispetto all’Europa settentrionale e, nel nostro Paese, il Sud si avvicinò al Nord. In tutto questo la Cassa ebbe un ruolo importante, in collaborazione con organismi internazionali come la Banca mondiale. 
Si può imitare oggi quell’esempio positivo?
AMEDEO LEPORE — Certo non lo si può riproporre così com’era. Bisogna però recuperare lo spirito che portò tutta l’Italia a rimboccarsi le maniche. E resta valida l’impostazione generale di allora, orientata a incrementare l’occupazione e la produttività attraverso quello che ho chiamato «keynesismo dell’offerta», indirizzato non all’aumento dei consumi, ma all’accumulazione di capitale come motore dello sviluppo. Anche l’autonomia operativa di cui godeva la Cassa per il Mezzogiorno, pur nel quadro dell’indirizzo generale fissato dal governo, fu molto utile. La svolta negativa venne con l’istituzione delle Regioni, che coincise anche con la crisi petrolifera dei primi anni Settanta. Da quel momento l’intervento straordinario ha cominciato a subire sempre di più l’influenza distorta della politica, che ha preteso di gestire invece di limitarsi a programmare.
Come invertire la rotta?
AMEDEO LEPORE — Oggi domina la frammentazione: il governo Gentiloni aveva unificato le competenze per la coesione e il Mezzogiorno nel ministero guidato da Claudio De Vincenti; ora sono divise tra Barbara Lezzi dei Cinque Stelle, ministro per il Sud, e la leghista Erika Stefani, agli Affari regionali, che spesso parlano lingue differenti, senza contare la proliferazione degli organismi burocratici. Urge un’opera di coordinamento degli interventi, che a mio avviso si potrebbe realizzare intorno a Invitalia (l’agenzia per lo sviluppo d’impresa), alla quale fa riferimento la Banca del Mezzogiorno. Bisogna inoltre agire in una dimensione più vasta: l’Italia dovrebbe chiedere all’Ue di istituire un’agenzia per lo sviluppo euro-mediterraneo, che getti un ponte verso l’Africa e sfrutti le prospettive aperte dal raddoppio del canale di Suez e dalla nuova Via della Seta.
Intanto il Nord chiede l’autonomia differenziata. 
NICOLA ROSSI — Sono spinte che derivano anche dal fallimento delle politiche per il Sud. Più che di «secessione dei ricchi», come fanno alcuni, parlerei di una «secessione dell’efficienza». Ciò non toglie che sul processo avviato da Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna si possano esprimere riserve. Bisogna chiarire che sull’intero territorio nazionale i diritti garantiti costituzionalmente, specialmente istruzione e sanità, devono essere offerti allo stesso livello minimo. Inoltre l’autonomia va associata a una piena responsabilità fiscale. Per troppi anni le Regioni hanno goduto di un potere di spesa a cui non corrispondeva l’obbligo di reperire le relative risorse. Nel quadro di una riforma fiscale complessiva, occorre rivedere i rapporti tra centro e periferia: se i cittadini di alcune Regioni vogliono un’autonomia rafforzata, bisogna che sappiano quanto costa.
AMEDEO LEPORE — Non sono pregiudizialmente contrario all’autonomia differenziata, ma trovo discutibile il modo in cui la si sta realizzando. I poteri reclamati dalle Regioni settentrionali sconfinano in materie la cui definizione non può che avere un carattere nazionale. Sarebbe un errore se lo Stato rinunciasse del tutto a istruzione, trasporti, sanità, cultura. La Lombardia ha chiesto 131 funzioni, a cui è legata la gestione d’importanti settori della vita nazionale. Dal momento che a tali competenze sono legate risorse ingenti, si prospetta una corsa al loro accaparramento, in una logica per cui chi arriva prima prende la fetta più grossa della torta. Il fatto che per i primi tre anni si preveda di calcolare le disponibilità finanziarie in base ai costi storici, quelli del passato, rischia di perpetuare sperequazioni e inefficienze. Manca la consapevolezza che l’Italia può competere a livello globale solo se si rafforza come sistema-Paese nel complesso, mentre una frammentazione territoriale indebolirebbe anche la competitività del Nord. Nemmeno Regioni come Lombardia e Veneto possono andare da sole. Perciò non credo che una riforma così importante possa scaturire da un negoziato tra il governo e le singole Regioni: serve una procedura che coinvolga tutto il mondo delle autonomie, Sud compreso, per dare unitarietà alla discussione, collegandola al tema del federalismo fiscale. È il punto toccato da Rossi quando invoca un nuovo principio di responsabilità.

Come giudicate le scelte del governo attuale? Il reddito di cittadinanza può giovare al Sud?
NICOLA ROSSI — La continuità con il passato è assoluta. Lo dimostra una frase della ministra Lezzi, già pronunciata infinite volte dai suoi predecessori: «Il Sud non perderà nemmeno un euro di risorse». Insomma, non cambierà nulla. È indubbio poi che l’Italia avesse bisogno di una misura contro la povertà e che i passati governi abbiano sbagliato trascurando il problema. Ma il reddito di cittadinanza è stato istituito in modo frettoloso e non credo si rivelerà utile. Bisogna poi aggiungere che i governanti attuali mostrano non tanto di essere contro l’industria, ma proprio di non sapere che cos’è un’impresa e come funziona. È una lacuna culturale che pagheremo cara, perché le aziende straniere, sempre di più, si guarderanno bene dal venire a investire in Italia.
AMEDEO LEPORE — Non parlerei di continuità assoluta. I precedenti governi, nell’epoca più recente, in realtà qualcosa di buono avevano fatto, come il credito d’imposta per gli investimenti e anche la decontribuzione per le nuove assunzioni, che però andava pensata in un quadro più generale di riduzione del cuneo fiscale.
NICOLA ROSSI — È interessante notare che nel triennio 2015-17 i risultati positivi sono venuti da sgravi automatici, cioè misure culturalmente all’opposto di ciò che è stato teorizzato e realizzato negli ultimi 25 anni. 
AMEDEO LEPORE — D’accordo, però questo dimostra che una certa discontinuità c’è stata, benché non abbia avuto il respiro necessario, e ha prodotto occupazione al Sud. Per combattere la povertà era stato introdotto il reddito d’inclusione, che era disegnato meglio del reddito di cittadinanza, benché fosse tardivo e dotato di poche risorse. Il reddito istituito dal governo Conte ha la pecca, a mio avviso, di indurre all’inattività invece di accompagnare i giovani verso il lavoro. È un errore pensare che lo Stato possa sostituirsi all’impresa e al mercato. Si tratta di attuare misure selettive e temporanee che diano al Sud la capacità di competere, di camminare con le sue gambe. Il rischio che vedo nelle scelte attuali è che nel Mezzogiorno tornino forme di protezione paternalistica e di sostegno al reddito che danno risposte di breve periodo, ma non hanno futuro.