La Lettura, 14 luglio 2019
Le lettere tra Guido Gozzano e Amalia Guglielminetti
La corrispondenza tra Guido Gozzano e Amalia Guglielminetti fu pubblicata per la prima volta nel 1951 sotto il titolo Lettere d’amore. Da allora non ha avuto vita facile, anzitutto per la perdita, un poco misteriosa e chissà se irrimediabile, degli autografi. Eppure si tratta di un carteggio tutto da scoprire, in cui i due poeti non si risparmiano in alcun modo. Vita, letteratura, confessioni, travestimenti, complicità, fraintendimenti, silenzi: davvero non manca nulla, da una parte e dall’altra.
Le Lettere d’amore vengono riproposte adesso in una bella edizione curata da Franco Contorbia (per Quodlibet), che nella sua postfazione ricostruisce il complesso «puzzle filologico, archivistico e bibliografico» che vi sta attorno, a partire dalla prima pubblicazione uscita a cura del «sommo bibliofilo» Spartaco Asciamprener, mancato di lì a poco a causa di un incidente stradale. Si tratta di 126 lettere, 40 della Guglielminetti e 86 di Gozzano, scritte tutte, ad eccezione delle ultime due che sono del 1912, tra il 1907 e il 1910. Per entrambi sono anni decisivi di formazione e di crescita poetica. Nel 1907 Amalia ha infatti pubblicato Le vergini folli, il suo secondo, molto apprezzato libro di poesia, mentre Guido il suo primo, La via del rifugio. Ma questi sono anche e soprattutto gli anni che portano alle raccolte della maturità, rispettivamente Le seduzioni (1909) e I colloqui (1911), dei quali ultimi si possono trovare qui importanti notizie sul processo di composizione, qualche stesura provvisoria (del poemetto Cocotte, ad esempio), ma anche ragguagli molto precisi sulla distinzione tra Signore e Signorine («quel nome brutto: Signorina»), che non possono non rapportarsi a quella che sarà la sua poesia più celebre, La signorina Felicita.
Semplificando un po’, è possibile seguire anzitutto tre linee tematiche. La prima riguarda ovviamente l’ambientazione, cioè il cosiddetto sapore dell’epoca, che in questo caso è innegabilmente liberty e un poco decadente: abitudini, amicizie, residenze estive e invernali, incontri, letture, pratiche e riti quotidiani. Come scrisse sul «Corriere della Sera» Pietro Pancrazi recensendo la prima edizione del libro, «dietro ci vedi un elegante anche se un po’ provinciale salotto del primo ’900: il piccolo mondo torinese da cui vennero fuori I colloqui». Il che non è affatto trascurabile, dunque.
Il secondo motivo, a cui si è accennato, riguarda la letteratura. Non va dimenticato che i due corrispondenti sono anzitutto poeti, che infatti, quanto a sé stessi, non dimenticano mai di esserlo, anche se a differenza di Guido, e questo elemento è di fondamentale importanza, Amalia si dichiara comunque disposta a mettere da parte la letteratura in favore della vita. In ogni caso, la considerazione reciproca è molto alta. In particolare, Guido apprezza moltissimo le poesie di Amalia, che impara senza fatica a memoria e su cui interviene pubblicamente. Ed è proprio la poesia il primo terreno del loro reciproco riconoscimento. Da questo punto di vista possono parlare con la certezza di essere compresi. «Ieri, l’altro ieri, sono stato ore e ore a tavolino, affastellando rime e pensieri e non facendo un verso passabile... E avrei tanti germi non ispregevoli da svolgere: ma sono di un’abulia metrica desolante», così ad esempio Guido. Mentre dal canto suo Amalia, riferendosi alla revisione dei suoi nuovi versi, gli scrive: «Ho messo al bando tutti quelli che mi parevano peccare anche venialmente di lontana o vicina rassomiglianza con qualcuno dei vostri. Qualche bel suono s’è cambiato in brutto, ma è mio, non guidogozzaneggia più».
E poi c’è ovviamente, come dal titolo, il motivo amoroso. Queste lettere sono il racconto, per un buon tratto perfino la cronistoria di una passione e di un amore, se non fosse che, anche se solo per la parte di Gozzano, parlare di passione e d’amore è cosa alquanto improbabile, se non impossibile, e dunque affatto imprecisa, illecita. Certamente la sovrapposizione può risultare meccanica o scontata, ma com’è possibile tenere distinto l’uomo che si rappresenta in queste lettere dal personaggio indifferente, distaccato, ironico, nichilista delle poesie, quel personaggio a tutti gli effetti poetico che sembra non avere un fondamento d’identità, un punto di resistenza, un grumo d’autenticità? Il gioco delle parti e delle maschere, ch’è poi un gioco degli specchi, a questo punto si moltiplica indefinitamente, perché anche la scrittura epistolare può comportare un grado molto alto di trasposizione letteraria. Ma allora come distinguere realtà e finzione, la confessione dalla maschera? «Non già che io temessi d’innamorarmi di Voi (io non sono innamorato che di me stesso; voglio dire: di ciò che succede in me stesso)», scrive Gozzano in una delle primissime lettere. In ogni caso, chi pensa che il motore vero della sua poesia sia la mancanza d’amore, vale a dire una consapevole, dichiarata, anche celebrata ma comunque effettiva incapacità d’amare, potrà trovare qui molte conferme: «Non ho amato pur troppo fin ora e forse non amerò più; non amerò mai se non ho amato Voi!» (9 dicembre 1907); quindi ancora, nella sua lettera più bella (30 marzo 1908): «Perdonami. Ragiono, perché non amo: questa è la grande verità. Io non t’ho amata mai. (…) Già altre volte t’ho confessata la mia grande miseria: nessuna donna mai mi fece soffrire; non ho amato mai».
Povera Guglielminetti, si potrebbe dire. Anche se è vero che per parte sua Amalia, fin dal giorno del primo invito per «un incontro molto savio e molto poco romantico» (4 ottobre 1907), mostra di possedere le proprie armi: intelligenza, sensibilità, consapevolezza di sé, fortezza d’animo, capacità di sentire e, per quel che importa, di scrivere. Basta leggere la lettera del 24 marzo 1908 per rendersene conto: «Perché mi fate piangere, Guido, perché mi fate rimpiangere quel poco che v’ho dato di me?». E del resto se la spada d’amore, come la chiamerà Umberto Saba, si rivolge fin da subito contro di lei, resta comunque la posizione di Guido, tra malattia esistenziale e malattia fisica (la tisi, a cui allude spessissimo), tra libera scelta e costrizione, la meno invidiabile.
«Voi siete lo spirito più affine al mio, come predilezioni e come sogni», scrive Gozzano ad Amalia. Eppure è la differenza delle rispettive posizioni, che può apparire perfino schematica, come se si trattasse di ruoli e di uno spartito già scritti, a rendere così viva questa storia di un amore non dato o realizzato (se non in un unico incontro poi deplorato da entrambi), quindi non senza fatica dirottato, se mai possibile, in amicizia. Alcune lettere sono davvero splendide. Soprattutto, questa corrispondenza non appare mai interlocutoria, come se non conoscesse momenti di stanca. E questo può perfino sorprendere trattandosi della «filosofia gelida» del più imprendibile io poetico del Novecento italiano. Ma proprio questa maschera, evidentemente, è stata di Gozzano la doppia, invariabile verità.