La Lettura, 14 luglio 2019
La distesa di sale più grande al mondo
Da San Pedro non abbiamo fatto che salire, ormai sono finiti anche gli arbusti bassi, solo roccia tutt’intorno. Chiedo all’autista a che altitudine si trova Hito Cajon, il passo al confine con la Bolivia, e lui mi risponde: – A 4.500 metri.
Ancora ieri mia moglie e io eravamo al mare, ad Antofagasta, una città che non offre nulla, solo deserto e i resti deprimenti delle miniere di salnitro; la stanza aveva un piccolo balcone davanti all’oceano, le tende chiare lasciavano filtrare l’eccesso di luce e noi siamo rimasti a letto, nudi, per un pomeriggio intero. Adesso mi trovo a pensare che come acclimatamento è stato un po’ ridicolo.
È l’inizio di maggio, il cuore della primavera in Europa, il cuore dell’autunno qui. Volevamo vedere il Salar de Uyuni, la distesa di sale più grande del mondo. L’abbiamo mancato in un viaggio simile, sei anni fa.
Quando la jeep si mette in coda alla frontiera scendo a respirare il vento d’alta quota. Sento un affanno leggero, ma la testa è a posto. Non corre buon sangue fra Cile e Bolivia, o almeno così mi pare, qualcosa che risale a una guerra di centocinquant’anni fa. Sbrighiamo le formalità doganali, ci presentiamo alla nuova guida, Paola, e al nuovo autista. Lui ha meno di vent’anni, lei porta un apparecchio ai denti che le dà un’aria da bambina.
Costeggiamo la Laguna Blanca, una lastra d’acqua sottile e immota che riflette il cono del vulcano Licancabur, così perfettamente da rendere impossibile, nelle fotografie, distinguere il sopra dal sotto. Paola ci racconta l’orogenesi della cordigliera, l’insinuarsi lentissimo della placca di Nazca sotto il continente. Raccomando a mia moglie di camminare piano perché siamo in alto, lei lascia la mia mano con impazienza, poi prosegue allo stesso ritmo.
Facciamo una sosta per pranzo, ed è allora che inizia a cambiare. – Hai una pastiglia per il mal di testa? mi chiede.
– Hai mal di testa?
– Se te la chiedo... Mi squadra, ha capito che sono in allarme: – Ho solo un po’ di mal di testa, dio mio! È questa strada tremenda. Stiamo viaggiando sulle pietre da ore.
Rovisto nell’astuccio dei medicinali e le allungo un blister di ibuprofene, domandandomi segretamente se sia davvero consigliato per i problemi di quota. È un vasodilatatore o un vasocostrittore o nessuno dei due? La rete cellulare è sparita da un pezzo, così devo fidarmi dell’istinto. Pochi minuti dopo aver inghiottito la pastiglia lei si addormenta, il braccio appeso alla maniglia in alto, la testa sballottata.
Qualche anno fa, su un’altra catena montuosa, ho avuto un attacco di raffreddore. Era la mia prima notte sopra i 3.500 e avevo paura nonostante i diuretici e l’ascesa graduale. Avevo scambiato il raffreddore per un inizio di soffocamento e svegliato la guida per avvisarla che dovevo scendere al più presto. C’erano tre giorni di cammino alle nostre spalle. La guida mi aveva rimandato a dormire con un commento gelido: «In montagna ci sono problemi di altitudine e problemi di attitudine».
Un residuo di quella notte mi porta, ora, a tenere d’occhio mia moglie. Approfitto del suo sonno per sporgermi fra i sedili davanti e chiedere a Paola quando inizieremo a scendere. Rimane spiazzata: – Oggi non scendiamo.
– Ma per la notte?
– Dormiamo a quattromila. Cioè... un po’ sopra i quattromila.
Deve notare un cambiamento nella mia espressione, perché mi domanda: – Si sente così male?
Ma io sto guardando mia moglie, aggrappata alla maniglia in quel modo scomposto. – Non avrei dovuto portarla qui. È un po’ anemica.
Quasi a conferma di quel pensiero, le prime parole che pronuncia svegliandosi sono: – Avessi saputo ch’era così, non sarei venuta.
– Per la strada o per l’altitudine?
Non risponde. Guarda fuori, sembra spenta. Solo più tardi, con rassegnazione, aggiunge: – Che mal di testa.
Alla sosta successiva non scende nemmeno. Ci sono dei fenicotteri in lontananza, i colli curvi ficcati nel fango, ma a lei sembra non importare nulla, e onestamente neanche a me.
Paola apre il cruscotto della jeep e prende un saturimetro. È una visione che dovrebbe confortarmi, invece quello strumento mi spaventa ancora di più, come l’evidenza che la situazione in cui ci troviamo – sopra i quattromila, mal adattati, senza rete telefonica, con chilometri di sterrato ostile in ogni direzione e affidati alle cure di due ragazzini —, questa situazione va presa sul serio.
Il saturimetro non funziona. Paola lo sfila dall’indice di mia moglie e lo scuote come se così potesse riattivarlo. – Devono essere le pile, commenta delusa.
Ma io, all’improvviso, so per certo che sul mio cellulare c’è un’applicazione per misurare la saturazione d’ossigeno. Non l’ho mai usata, forse non l’ho nemmeno mai vista, ma so che c’è. Premo il polpastrello sul sensore per fare un test, dice 83%, poi lo passo a mia moglie. Dopo qualche esitazione il display segna 76%. Secondo la scala riportata sotto siamo entrambi, ampiamente, nella zona rossa. In effetti, la scala non si spinge neppure sotto il 70%, come se oltre ci fosse solo qualche eventualità macabra, tipo l’arresto cardiaco.
– Va male? domanda mia moglie, e io non so cosa risponderle. Paola mi viene in aiuto: – È un po’ bassa... ma magari migliora.
Ripartiamo. Lei si addormenta, si risveglia, si addormenta, si risveglia. Ogni volta la costringo a bere un po’ d’acqua, nella speranza che possa servire. Nel frattempo, l’adrenalina ha spazzato via del tutto il mio malessere: acclimatato per paura.
Le chiedo un’altra volta come sta e lei sbotta: – Basta! Sto come cinque minuti fa! Cosa vuoi che sia cambiato? Mica posso morire!
Sono sinistramente grato che sappia così poco del mal di montagna. Fuori, ancora pietraie, ancora guadi, altri vulcani lisci: i panorami infiniti che abbiamo pagato migliaia di euro per vedere. Che cazzo ci facciamo qui?
Poi, d’un tratto, scoppia a ridere. Mi guarda con le lacrime agli occhi, sghignazzando, e non sembra lei. La scongiuro di smetterla, ma non ci riesce. Per un attimo sono certo che non sappia chi sono.
– Fermiamoci! grido.
Paola interrompe la sua spiegazione inutile sulle fumarole e dice qualcosa di perentorio all’autista.
Adesso vedo bene quanto mia moglie è pallida, le labbra sono livide. Lei, di rimando, riconosce qualcosa di esterrefatto in me, allora mi accarezza il viso. – Stai tranquillo, dice. Un moto d’affetto che mi trafigge.
Le poso l’indice sul sensore del telefono, le mani mi tremano. L’app fatica ancora di più a capire la pulsazione, infine compare un misero 71%. Il puntatore è a fine corsa.
Anche Paola ha letto il numero. Dice: – Ci serve dell’ossigeno. C’è una postazione a mezz’ora da qui.
Non mollo la mano di mia moglie per tutto quel tempo, anche quando è completamente sudata. Nella testa prego confusamente, poi mi distraggo e formulo nuovi scenari rivoltanti di vedovanza. Nella jeep non parla nessuno. L’autista ragazzino guida più forte, con una concentrazione da pilota.
Con l’ossigeno la percentuale sale rapidamente. Scatto una foto a mia moglie con la mascherina di gomma trasparente sulla faccia. Paola cronometra cinque minuti.
Rassicurati (io solo in parte), sopportiamo le ultime ore di strada. Lo sterrato migliora un po’ verso la fine, e qualche centinaio di metri in meno bastano a far ricomparire l’erba e le vigogne solitarie che ruotano serafiche la testa al nostro passaggio.
All’ostello rimaniamo intesi con Paola che l’avviseremo in caso di emergenza, pronti a scappare dall’altipiano verso chissà dove, forse la foresta amazzonica. Appena guadagnato il wi-fi, confronto tre siti sul mal di montagna. Concordano: la notte è il momento più rischioso. Al fondo di ognuno compare l’espressione «edema cerebrale acuto».
La sera mi viene la febbre. Assaggio appena la zuppa di mais, mentre lei ne finisce due piatti. Vederla mangiare mi risolleva il morale. Dico qualcosa di melodrammatico che suona come: non faremo mai più niente del genere, anzi non viaggeremo mai più.
– Ti sei preoccupato troppo, mi risponde. Ti preoccupi sempre troppo –. Poi le viene un sospetto: – È per qualcosa che ti ha detto tuo padre?
Le assicuro che, questa volta, mio padre non c’entra.
La camera prevede due letti singoli, separati. Mi addormento prima delle otto, così alle undici sono sveglio. Per il resto della notte ascolto il respiro di mia moglie, ne saggio la profondità, cerco di cogliere le anomalie. In quelle ore sfasciate il mio cuore salta da un’apprensione all’altra. So che non smetterà, perciò non provo neppure a fermarlo. Conosco le notti come questa: notti insonni, fibrillanti di paura, in cui ti sembra di frenare una catastrofe con le mani. Se solo resisterò fino al mattino...
A cena ho mentito. Ovviamente mio padre c’entra. Per via di quella storia che conosco da sempre, di quando da giovane aveva scalato il Kilimangiaro come medico di una spedizione, e una ragazza non aveva confessato a nessuno di essere incinta. Ho storie del genere sui morsi di vipera, sull’assideramento e sui colpi di calore, sulla meningite e le motociclette...
Arriva l’alba. Resisto ancora alla tentazione di svegliarla per misurare la saturazione: sono quasi le cinque, cosa cambierebbe? Ecco di cos’è fatto tutto questo amore, penso: di quintali di apprensione, della paura sottilissima che l’altra persona muoia, lasciandoti a gestire un vuoto orrendo. E al fondo di questa notte paradossale a quattromila metri, sotto l’unica luce accesa nel raggio di chilometri, sento l’impulso nuovo, fortissimo, di liberarmi di tutto ciò. Non voglio più nessuno per cui spaventarmi d’ora in avanti, più nessun amore che mi tolga il sonno. Basta. Voglio solo riposare.
Mi sveglia con un bacio. Ha la pelle arrossata dalla doccia, i capelli umidi, un asciugamano legato sopra il seno. – L’acqua calda va e viene, dice. Ma si può fare.
– La tua testa?
– Molto meglio. Tu?
Quasi non ascolta la risposta. Il mal di testa è migrato da lei a me, non mi lascerà stare fino alla fine del viaggio. Una preghiera esaudita.
– Finalmente vedremo il Salar, dice. Ho aspettato così tanto. Sai che c’è un’isola al centro? È ricoperta di cactus secolari.
– Devi proteggerti gli occhi, rispondo. Con il bianco del sale gli ultravioletti arriveranno da tutte le parti, anche da sotto. Si rischia una congiuntivite.
Lei gira il viso verso di me. Per un attimo lascia stare lo zaino che stava ricomponendo. Arriccia il naso, poi fa segno di no e sorride. – Andiamo a fare colazione. Dai.