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 2019  luglio 14 Domenica calendario

Intervista a Renzo Arbore: «Ecco i segreti dei tormentoni»

Renzo Arbore è nato a Foggia.

Ci fu un tempo in cui Renzo Arbore costruì una neo-lingua, e se non la conoscevi non potevi comunicare. Ricordo una mattina dell’estate del 1985, con altri tre amici napoletani; eravamo andati a prendere alla stazione un compagno che tornava da un soggiorno di studi in California, allora lontana come la Luna. In treno si chiacchierava, della sua esperienza e delle nostre vicende, e ci sfottevamo l’un l’altro. «Hai detto una Catalanata», quando uno se ne usciva con un’ovvietà; oppure «non capisco ma mi adeguo», per contraddirci l’un l’altro; oppure ancora tiravamo fuori il «brodo primordiale» ogni due e tre. Il nostro amico, si chiamava Procolo e non è uno scherzo, non seguiva, non rideva, chiaramente non capiva. E dopo un po’ ci chiese: «Ma come parlate?». Era stato via appena tre mesi, ma si era perso «Quelli della notte», il programma rivelazione firmato da Renzo Arbore e Ugo Porcelli di cui noi giovani ripetevamo ormai quotidianamente le gag di un umorismo non-sense, che poi è una metafora elegante per dire «cazzeggio». Ci aveva tenuto a casa la sera per tutta la primavera, una delle rare stagioni in cui per i ragazzi era diventato più trendy restarsene davanti alla tv che uscire, e una volta superò il 50% di share.
Quel piccolo «buco» di tre mesi di tv aveva trasformato il nostro amico in un escluso, impossibilitato a condividere il nostro senso dell’umorismo, le metafore, il modo di esprimersi dei suoi coetanei. La radio trasmetteva «L’estate sta finendo e un anno se ne va/ sto diventando grande lo sai che non mi va», dei Righeira. Roberto D’Agostino ci aveva appena informato che era arrivato il tempo dell’«edonismo reaganiano». Gli anni 80 si erano portati via l’impegno politico. Era avvenuto un salto antropologico. Dopo quell’estate i giovani non sarebbero mai stati come prima.
La potenza dei tormentoni, le frasi, le canzoni, le battute che si ripetono ossessivamente fino a diventare qualcosa d’altro, è dunque culturale. Sono un’espressione dello Zeitgeist, lo spirito del tempo. È perciò giusto chiedersi perché oggi, come le mezze stagioni, sembrano non esserci più. Anzi, è giusto chiederlo ad Arbore, massima auctoritas vivente nel genere.
«Non esageriamo con i significati. Innanzitutto il tormentone è fatto di pura e semplice ripetizione. Gianni Boncompagni sosteneva che qualsiasi frase con una buona assonanza, se ripetuta all’infinito, si può trasformare in un tormentone. In un certo senso aveva ragione. Io ho ancora nelle orecchie la pubblicità radiofonica della mia infanzia: “Più bril del bril, non c’è che il Bril”, diceva quella del lucido da scarpe, e noi ripetevamo. “Al primo accenno di raffreddore, non c’è che Rinoleina”, e noi ripetevamo. I bambini sono cruciali per il successo di un tormentone. Va forte appena diventa un lessico famigliare, per giocare coi piccoli. Pure il fascismo lo sapeva: tutto sommato Eia Eia Alalà era un tormentone. Così lo cominciammo a fare anche noi alla radio, con Gianni fummo antesignani, prima con Bandiera Gialla e poi con Per voi giovani: “Tutto sotto controllo” diventò la frase cult della generazione beat. E poi, più semplice, “l’antenna che non tentenna”. Ma se mi chiedi che cosa è un tormentone, io ti rispondo: prima di tutto è ripetizione».
Si potrebbe dunque dire, con Walter Benjamin, che è figlio dell’epoca della «riproducibilità tecnica dell’opera d’arte». O, con Basilio Petruzza, che tormentoni non si nasce, si diventa. Ma davvero basta ripetere qualsiasi cosa enne volte per sfondare?
«Beh, io non ero così d’accordo con Gianni. Tra di noi c’era anzi una discussione su questo. Io facevo un po’ più l’intellettuale. Lo slogan pubblicitario, la battuta comica, il verso di una canzone, per farsi davvero tormentone deve secondo me evocare qualcosa, o almeno alludere a qualcosa, a uno stile, a un atteggiamento. Ti faccio l’esempio di “Fatti più un là”, la sigla dell’Altra Domenica delle sorelle Bandiera (Fatti più in là... a... a.../ Così vicino mi fai turbar”). Andò così forte che la trasformammo in uno sketch politico con Andreotti, Berlinguer e Craxi che si contendevano uno scranno. Ben più sofisticato fu Maurizio Ferrini, il romagnolo comunista con il borsello, leghista ante litteram, che già nel 1985 voleva costruire il muro di Ancona per non far passare i meridionali. Lui si inventò quel “Non capisco ma mi adeguo” che diceva in una sola fase il travaglio dei militanti del Pci degli anni ‘80, sottoposti a stress di linea continui. Non che la gente pensasse a questo mentre ripeteva quella frase nelle conversazioni scherzose, ma il sottotesto era pur sempre nella mente di tutti, e dava profondità al tormentone».
Tra l’altro è impressionante l’attualità profetica di quel personaggio, capace di cogliere che cosa c’era nella forma mentis di un comunista emiliano che avrebbe potuto sfociare nel leghismo. A me il Savoini di questi giorni, il salviniano filorusso innamorato di Putin, mi ricorda da morire Ferrini, gli assomiglia pure fisicamente.
«Con Ferrini ancora adesso qualche volta nei miei show facciamo uno sketch, lui dice che vuole costruire una corsia preferenziale in terra battuta per meridionali da Taranto a Milano, senza uscite così non possono fermarsi, e al posto degli autogrill mettiamo le capanne di paglia che vendono salsicce e friarielli».
E le canzoni? Quali sono i tormentoni top secondo te?
«È l’epopea del disco per l’estate. “Per quest’anno non cambiare/ stessa spiaggia stesso mare”, di Piero Focaccia; “Sei diventata nera, nera, nera/ sei diventata nera come il carbon”, dei Los Marcellos Ferial. Ovviamente il grande Eduardo Vianello: “A-A-A, abbronzatissima/ sotto i raggi del sole, a due passi dal mare”; “Con le pinne, fucili ed occhiali/ dove il mare è una tavola blu”. Però, guarda, secondo me il primo grande tormentone fu suo malgrado, quasi inconsapevolmente, una canzone d’autore come Sapore di sale di Gino Paoli, nel ‘64. A conferma del fatto che non è solo l’orecchiabilità, la facilità di ascolto, a fare il successo».
Quand’è che un tormentone diventa ufficialmente tale ed entra nella Hall of fame?
«Secondo me quando finisce nei titoli dei giornali, viene usato sulla stampa o in televisione, magari in contesti che non c’entrano nulla. Allora vuol dire che ha spiccato il volo, e vive di vita propria. Per esempio, ce n’è uno che ho fatto per la pubblicità, “Meditate gente, meditate”, che voi giornalisti usate spesso. Su Dagospia Roberto ha rilanciato “Ah, saperlo...”, un tormentone di Pazzaglia, il professore che faceva l’intellettuale a Quelli della notte, noto anche per aver inventato i “separati in casa”. A Mogol dobbiamo un verso diventato molto comune nel linguaggio parlato e scritto, quasi una massima filosofica: “Lo scopriremo solo vivendo”. Dal cinema ne sono venuti molti: ti ricordi il “boni, state boni”, di Alberto Sordi ne “La grande guerra”? Lo stesso è accaduto con la pubblicità, industria nella quale si cerca la frase-tormentone come se fosse il Santo Gral. Io ne ho fatte tante, qualcuna di successo come “meditate gente”, qualcun’altra che secondo me poteva esserlo ma l’azienda non ha speso abbastanza per rendere il messaggio ossessivo, e, come ti ho detto, la ripetizione è indispensabile. Pensa a frasi come “contro il logorio della vita moderna”».
Me lo ricordo. C’era questo Carosello con un attore calvo, allora si poteva, Ernesto Calindri, tranquillamente seduto in mezzo al traffico cittadino mentre leggeva il giornale e sorseggiava un aperitivo a base di carciofo. E come dimenticarlo? È una delle immagini della mia infanzia. Ma oggi non mi pare di vederne più di tormentoni così, né nella musica leggera né nella pubblicità. È solo perché invecchiando il passato ci sembra sempre migliore o davvero non ci sono più i tormentoni di una volta?
«Non mi pare che ci siano. Guardiamo le canzoni di questa estate. Di aspiranti tormentoni ce ne saranno una decina, hanno anche successo, ma temo che nessuno passerà alla storia, legandosi per sempre al nome di un cantante o di un gruppo che magari ha fatto solo quello nella vita, come accadeva un tempo».
Perché?
«Secondo me la prima ragione è l’abbondanza. Sai come dicono a Napoli: sparti ricchezza, diventa povertà. Vuol dire che se ce ne sono tanti di pezzi costruiti per avere quel tipo di diffusione, facile da ricordare, orecchiabile, estiva, allora è più difficile che uno solo diventi l’unico, memorabile tormentone. La rete, con la sua incredibile disponibilità on demand, ha polverizzato il pubblico e il mercato, così è più difficile che tutti insieme canticchino per una estate lo stesso motivo perché ognuno ha il suo mezzo e il pezzo».
Si potrebbe allora quasi dire che, in mezzo a tanti difetti, il monopolio era per lo meno l’habitat ideale per il tormentone. Quando c’era una sola emittente, la Rai, due canali tv e tre radio, era più facile imporlo. Un po’ come gli eventi: davanti a uno show in diretta sulla Rete Uno in prima serata si raccoglievano dieci milioni di italiani.
«Certo, io e Gianni siamo stato fortunati da questo punto di vista. Quando cominciammo non esistevano nemmeno le radio private. Non avevamo concorrenza. Però anche adesso ne escono di tormentoni. Quello della pubblicità sui sofà mi piace, ha preso, è entrato anche nelle barzellette. Pure Salvini se ne è fatto uno col “cuore immacolato di Maria”. E poi non dimentichiamo l’onda spagnola, da La Bamba, alla Lambada, alla Macarena, fino a Despacito. Ora ti devo lasciare, ho un esame a Napoli».
Per esame Arbore intende un concerto. Quelli nella città partenopea lo mettono ancora in ansia, dice che a Napoli è sempre un esame. L’intervista è stata fatta alla vigilia, per la cronaca l’esame è andato benissimo.
Ps: ho voluto fare un test generazionale per capire se questa nostalgia dei tormentoni di una volta fosse solo figlia della laudatio temporis acti di chi non ha più l’età, e tutto quello che ha vissuto gli sembra migliore di ciò che fanno i figli o i nipoti. Ho dunque interrogato la mia figlia grande ventiquattrenne, e i miei due piccoli, di dieci anni. Tutti sostengono di aver avuto o di avere un tormentone. La prima ricorda, e lo ricordo anch’io, «Dammi tre parole/ sole cuore amore», di Valeria Rossi, e l’estate del 2001, tra le più spensierate per la sua età. I piccoli citano il presente: Calipso di Dardust, feat., Sfera Ebbasta, Mahmood & Fabri Fibra, «Io non so più dove ho messo il cuore/ forse l’ho scordato dentro una ventiquattr’ore», e aggiungono che Rovazzi, il loro idolo di appena un anno fa, non va più bene, perché è da bambini.
Poi penso a Despacito, di Luis Fonsi, cinque miliardi di visualizzazioni, il video musicale più visto della storia, e mi dico che forse il tormentone c’è ancora ma noi non lo vediamo più, perché sta su YouTube, che è la nuova tv dei nostri figli. Forse il tormentone richiede uno stato d’animo che sia disposto a farsi tormentare perché senza pensieri, nell’età dell’innocenza. Forse nella vita possiamo avere solo un numero limitato di «nostri» tormentoni, e quegli degli altri per noi non sono mai davvero tali. Forse tra vent’anni il «Corriere» scriverà un pezzo per lamentare la fine del tormentone, e rimpiangerà quelli di oggi come oggi rimpiangiamo quelli di vent’anni fa.