La Lettura, 14 luglio 2019
La storia della preistoria
Lo studio della preistoria, le «antichità umane anteriori a ogni più antico documento scritto», si è sviluppato soprattutto negli ultimi 150 anni, in parallelo alla geologia e alla paleontologia. Sulla base delle teorie di Darwin, gli strumenti in pietra creati da un’umanità antidiluviana e i resti di fauna estinta furono riconosciuti come testimonianze di una fase preistorica. Da quel momento gli archeologi preistorici svilupparono metodologie, tecniche e strumenti concettuali sempre più sofisticati per ricostruire eventi e processi senza l’ausilio di testimonianze scritte. Sistemi e tecniche di scavo perfezionate permettono di decifrare l’unica fonte «storica» disponibile: le tracce materiali lasciate nel terreno dall’uomo e dagli agenti naturali. Sono stati, quindi, migliorati metodi per rilevare e prelevare tutti i materiali, i resti strutturali, i manufatti oltre che le tracce bioarcheologiche e geoarcheologiche. Alla metà del Novecento, straordinari progressi scientifici hanno rivoluzionato la ricerca preistorica e favorito lo studio dei rapporti tra le comunità umane e il contesto ambientale grazie a sistemi di datazione assoluta quali il C14, a metodi di analisi fisico-chimiche, su resti vegetali, sedimenti eccetera.
Dalla fine del secolo scorso le tecniche di scavo microstratigrafico permettono di individuare i processi antropici e naturali che hanno originato o modificato gli strati archeologici in base alle più minute variazioni nella composizione del terreno. Nel 2017 i risultati dello scavo microstratigrafico delle tombe di una necropoli megalitica indoeuropea nella valle dello Swat, nel Nord del Pakistan, in uso dal 1400 al 900 a.C., comprendevano la ricostruzione dei gesti rituali eseguiti durante le complesse cerimonie di riapertura delle tombe per spostare gli oggetti dei corredi funerari o le ossa dei defunti e la scoperta di resti di stoffe, canestri e vasi di legno mai individuati prima.
Alcuni progressi scientifici degli ultimi anni stanno, ancora una volta, trasformando e arricchendo in maniera inaspettata le prospettive della ricerca preistorica, e lo stanno facendo su scala planetaria. La genetica, prima di tutto, con i fondamentali risultati dello Human Genome Diversity Project di Luigi Luca Cavalli Sforza. David Reich, genetista di Harvard, Usa, oggi parla di «rivoluzione del Dna antico» nello studio della storia umana. Il metodo per estrarre e purificare tracce del Dna dalle ossa antiche, dove può conservarsi per decine di migliaia di anni, fu messo a punto nel 2009 al Max Planck Institute di Lipsia in Germania. In pochi anni questa branca della genetica ha sequenziato ben oltre un migliaio di genomi antichi e sta offrendo informazioni importanti sulla storia del popolamento umano, gli spostamenti e le migrazioni. Recentemente, un gruppo di ricercatori dello stesso Max Planck ha sviluppato una tecnica per estrarre materiale genetico dai sedimenti geologici di numerose grotte, arrivando a identificare la presenza di Dna mitocondriale di Neanderthal e di un denisoviano.
Questo nuovo sistema permetterà di individuare Dna umano nelle grotte anche in assenza di resti umani. Poche settimane fa sono stati pubblicati i risultati di uno studio che ha isolato il profilo genetico di tre individui in grumi di corteccia di betulla scoperti nel sito mesolitico svedese di Huseby Klev e datati tra 10.040 e 9.610 anni da oggi (datazione ricalibrata). Questi «chewing gum» masticati da un uomo e due donne, forse per ottenere collante ma probabilmente anche per il sapore intenso della resina, offrono informazioni di grande interesse per il popolamento della regione dopo la fine dell’era glaciale. In alcuni casi, tuttavia, le conclusioni degli studi genetici hanno suscitato riserve di metodo, sul campionamento o le modalità di raccolta; in altri gli archeologi hanno dissentito da interpretazioni che rischiavano di semplificare processi di grande complessità oppure scardinavano convinzioni radicate.
Nel settembre del 2017 un articolo sull’«American Journal of Physical Anthropology» pubblicò i risultati delle analisi genetiche condotte sui resti umani scoperti nel 1878 a Birka (Svezia) in una tomba attribuita a un guerriero vichingo di alto rango, e rivelò che il guerriero era biologicamente femminile. Questo risultato richiamò un’attenzione planetaria e fu vivacemente contestato. Lo studio fu esaminato da oltre 130 agenzie di stampa, fu discusso in 2.200 account individuali online con milioni di follower e arrivò al 43° posto nell’elenco degli articoli scientifici più consultati tra i circa 2,2 milioni pubblicati nel mondo durante il 2017. Gli autori, in un secondo articolo edito pochi mesi fa, hanno replicato alle obiezioni, confermato i risultati e proposto agli archeologi una riflessione sui pregiudizi scientifici, sull’influsso che possono esercitare, su ciò che siamo disposti a considerare accettabile nel passato e perché.
L’applicazione dei big data, infine, è una delle componenti più cruciali della rivoluzione scientifica in corso nell’archeologia. Il termine indica insiemi di dati tanto grandi e complessi che per essere gestiti ed elaborati richiedono strumenti particolari e diversi rispetto alle tradizionali architetture informatiche. Le informazioni dei big data, inoltre, sono spesso disponibili sotto forme diverse: documenti, metadati, posizioni geografiche, valori rilevati da sensori, immagini satellitari e numerose altre configurazioni. Le possibilità offerte dalle tecnologie e metodi che permettono di utilizzare grandi quantità di informazioni archeologiche, geologiche, ambientali e ogni altra disponibile sono infinite.
Il progetto – English Landscape and Identities – ha riunito in un unico database tutte le principali fonti digitali sull’Inghilterra dal 1500 a.C. al 1086. Le informazioni prodotte dalla ricerca archeologica in 150 anni sono ora accessibili a tutti, per analisi statistiche e spaziali utili a chiarire la successione e le variazioni geografiche e cronologiche del paesaggio.
Altri progetti hanno classificato la mobilità e la tecnologia di gruppi di cacciatori e raccoglitori del Sud America tra dodicimila anni fa e il XIX secolo o stanno ricostruendo la paleoidrografia della civiltà dell’Indo durante l’età del bronzo (2600-1900 a.C.) utilizzando i sistemi di intelligenza artificiale su grandi volumi di dati. Gli archeologi stanno iniziando a considerare i big data come un nuovo importante strumento di analisi e interpretazione, svilupparne le potenzialità dipenderà soprattutto dalla disponibilità e accessibilità delle informazioni oltre che dalla consapevolezza degli utenti.
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di Telmo Pievani
Prima della storia c’erano altre storie. Questo lo sappiamo. Perché allora usare il termine «pre-istoria»? Prima di che cosa? Nell’Ottocento la vertigine del tempo geologico, la rivoluzione darwiniana e la scoperta che la Terra era vecchia di milioni e poi miliardi di anni crearono un tale disorientamento da richiedere una messa in ordine, cioè la definizione di un prima (sterminato e buio) e di un poi, recente, che annunciasse l’alba rassicurante della civiltà umana. La preistoria non c’è sempre stata: è un’idea moderna, prima del 1860 non se ne parlava.
Ma la demarcazione di un prima e di un dopo è sempre sospetta, perché costruita con il senno di poi. L’inizio della storia coincide solitamente con la nascita delle civiltà della scrittura in Eurasia e in Egitto intorno a sei millenni fa, con le città sui fiumi, i commerci, le stratificazioni sociali, gli eserciti, e soprattutto i documenti. Il dopo siamo noi, quindi. Il prima invece è una dimensione più sfumata su cui tendiamo a proiettare le nostre visioni del mondo. Materia per paleoantropologi e archeologi, la preistoria in passato fu rappresentata spesso come un’edificante marcia del progresso: una sequela di precursori e faticose conquiste «verso» la condizione moderna. Il predecessore preistorico assumeva le sembianze del «cattivo della storia», la cui sconfitta per opera dei buoni venuti dopo esaltava le nostre magnifiche sorti e progressive.
Al Neanderthal, per esempio, venne attribuito il ruolo dell’uomo delle caverne, peloso e armato di clava, un bruto predestinato all’estinzione per mano di Homo sapiens. La preistoria era lo specchio distorcente in cui la modernità vedeva il suo lato rimosso e dimenticato, i retaggi ancestrali dai quali sentirsi emancipata. Per contrapposizione, molti artisti hanno cercato ispirazioni e rifondazioni in una preistoria piena di autenticità e purezza, di giovane gagliardia poi tradita e corrotta dalla vecchia e decadente civiltà occidentale.
Le incrostazioni ideologiche rendono le presunte discontinuità sempre complicate. Basti pensare alle difficoltà che stanno incontrando geologi e scienziati della Terra nel definire l’inizio dell’Antropocene, cioè l’epoca in cui la specie umana è diventata capace di modificare la geofisica del pianeta. Ne stanno discutendo da anni e non ne vengono a capo.
La preistoria stessa quando sarebbe cominciata? Di solito la si fa partire dal Pleistocene e dagli inizi del genere Homo, 2,5 milioni di anni fa circa, ma poi si scopre che le prime tecnologie litiche risalgono a 800 mila anni prima e che, mentre si evolvevano gli umani del nostro genere, altre forme ominine (australopitecine e parantropi) sopravvissero per almeno un milione di anni. Quindi c’è una preistoria prima della preistoria.
Ci piace immaginare punti di origine precisi, ma non è quasi mai così. Le retrodatazioni sono sempre più frequenti. Sui manuali è scritto che l’arte rupestre nacque in Europa, ma ne abbiamo trovata di più antica a Sulawesi, in Indonesia. Forse l’arte non era nemmeno un’esclusiva di Homo sapiens, se sarà confermata l’attribuzione a Neanderthal di pitture scoperte in Spagna, risalenti a 65 mila anni fa. Il Neolitico non fu una «rivoluzione», ma una complessa transizione avvenuta in più regioni del globo, anticipata da chissà quanti tentativi ed errori nel selezionare le piante. Gli archeologi hanno scoperto macine e pestelli risalenti a 20 millenni prima della fine dell’ultima glaciazione, 11.650 anni fa.
Oggi la preistoria si è arricchita di tante sotto-storie inaspettate: la convivenza di almeno cinque specie umane diverse fino a 50 mila anni fa; stratificazioni di antichissime migrazioni; attraversamenti di bracci di mare già 65 mila anni fa, per approdare in Australia. La preistoria è davvero «un enigma moderno», come lo definì Giorgio de Chirico. Prima della storia c’erano altre storie, in gran parte ancora da scoprire e non meno importanti per capire chi siamo.