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 2019  luglio 13 Sabato calendario

Henri Girard, che massacrò la famiglia e fu assolto

Che rapporto c’è tra il sistema elettronico di un’auto presa a nolo che all’inizio d’un lungo viaggio manda al guidatore misteriosi segnali d’allarme, e un’oscura strage avvenuta più di mezzo secolo fa (nel 1941) in un castello del Perigord, peraltro un classico enigma della camera chiusa? Sono i primi mattoni con i quali Philippe Jeanada, nel nuovo romanzo in libreria per Sellerio, Lo strano caso di Henri Girard (traduzione di Angelo Molica Franco, molto più asciutto il titolo originale: La Serpe, ovvero «la roncola») ci fa entrare nella sua fluviale narrazione condotta in prima persona, tra autofiction e inchiesta storica. È un modello formale da lui già seguito in almeno due opere precedenti, e che sembra interessare sempre di più autori non solo europei, in un panorama dove le forme del romanzo e del saggio diventano per così dire porose, si contaminano, dialogano tra di loro.
Qui il personaggio che dice io – e che perciò si fa carico del romanzesco, mentre l’altro, quello che viene raccontato, dovrà essere «tutto vero» e documentato - compie una lunga indagine su una figura quantomeno sconcertante del 900, due volte investita dalla notorietà e poi sostanzialmente dimenticata. Henri Girard ebbe successo con Il salario della paura, pubblicato con lo pseudonimo di Georges Arnaud, da cui vennero tratti ben due film, il primo nel ’53 con Ives Montand, regia di Henri-Georges Clouzot. Ma c’è ben altro nella sua preistoria: soprattutto c’è che dovette sostenere un lungo processo con l’accusa di aver massacrato il padre, la zia e la governante a colpi di roncola, nel castello avito. 
Tutto sembrava congiurare contro di lui, anche se venne assolto. La sua vicenda è davvero straordinaria, al limite del noir, e come tale la presenta Jeanada: «Il personaggio principale, Henri, il vero demonio, è tanto per cominciare una peste…. sottrae ai suoi familiari tutto il denaro che può, lo scialacqua a destra e a manca, s’infuria quando si rifiutano di rimpinguarlo». Nella Parigi occupata, Henri sembra far di tutto per costruirsi l’immagine di un pericoloso selvaggio: anarchico, blasfemo e sarcastico, devastatore di case ed alberghi, protagonista di liti memorabili, preda di violente crisi di collera, inscena persino un falso rapimento da parte della Gestapo per estorcere soldi alla ricca famiglia. Inutile aggiungere che, quando torna in campagna, i paesani ne sono terrorizzati. Era l’assassino perfetto, anche in termini lombrosiani. Tra gli atti giudiziari c’è persino la descrizione della testa, definita «a trottola». 
La notte del delitto, nel castello, tutte le porte erano chiuse – e tali rimasero il giorno successivo, quando la polizia arrivò all’alba del 25 ottobre 1941; non venne rubato nulla, e per di più si ritrovò una roncola insanguinata che proprio Henri aveva preso a prestito da un contadino qualche giorno prima. Fu tuttavia assolto. Non c’erano prove decisive, c’era un grande avvocato dalla sua parte, la Francia forse aveva altro cui pensare; per di più l’indagine di Jeanada chiarisce come non si batterono tutte le piste possibili. Di qui in poi, però, la leggenda del giovane scapestrato fa un salto di qualità, e diventa quella dello scrittore maledetto.
Il giovane ribelle dilapida in un attimo la cospicua eredità e se ne va in Sud America, senza un soldo. Naviga come clandestino, diventa cercatore d’oro, risale l’Orinoco con un socio che chiamerà Jimmy il bugiardo, «un figlio di papà come lui, sifilitico, mitomane e fannullone» ma soprattutto lavora come autista di camion in Venezuela. Da questa esperienza ricava il materiale per Il Salario della paura, storia di un camionista che deve trasportare un carico di dinamite su strade sconnesse, col rischio di saltare per aria al minimo urto; e grazie ad essa diventa scrittore e giornalista di ottima notorietà – e di pessimo carattere.
Segue ad esempio grandi processi di cronaca nera, sempre dalla parte dell’imputato, fino a farsi condannare per oltraggio ai giudici. Ha successo, lo spreca, si sposa e si risposa varie volte, si dedica alla causa algerina, denuncia le torture in carcere, e dopo l’Indipendenza si trasferisce ad Algeri per occuparsi di informazione per il nuovo governo. Per Jeanada, è un «nomade combattivo che non vuole possedere niente e aiuta chi ha bisogno. Un bravo ragazzo, alla fine». E soprattutto non ha ucciso nessuno, contro l’opinione corrente che ne aveva fatto un «mostro» fortunato.
Il libro è molto accattivante nella ricostruzione del caso e nel disboscamento della vasta bibliografia accumulatasi sul tema. Ma anche e soprattutto nella storia della ricerca stessa, del lento dislocarsi dell’autore sul territorio delle vicende ricostruite e, in fondo, della propria vita. Forse per contrasto, forse per mimesi, esibisce una vena tra l’autobiografico, lo spiritoso, e persino il buffonesco (commentando come un basso continuo le successive scoperte su Henri Girard): a volte à assai efficace, a volte abbastanza prevedibile fino alla caduta di gusto; ed è questo l’aspetto meno convincente di un romanzo ambiziosissimo.