il Fatto Quotidiano, 13 luglio 2019
Il pirla Savoini
Diceva Marx che “la storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia e la seconda come farsa”. Nello scandalo di Gianluca Savoini e dei presunti finanziamenti occulti alla Lega da Santa Madre Russia, invece, la storia si ripete due volte: ma la prima come farsa e la seconda pure. Come sempre, quando ci sono di mezzo la Lega e i soldi. Il 7 dicembre 1993 il pool Mani Pulite, che indaga sulla maxitangente Enimont, fa arrestare Alessandro Patelli, di professione idraulico e dunque tesoriere della Lega Nord. Questi ammette di aver ricevuto 200 milioni di lire da un emissario di Carlo Sama al Bar Doney di Roma ladrona: “Poi sono tornato a Milano, sono andato alla sede di via Arbe, li ho chiusi a chiave in un cassetto e me ne sono andato a casa a dormire. Quella notte, però, la sede venne scassinata, portarono via carte di ogni tipo e anche i quattrini. A Bossi non ho detto niente”. Il Senatùr la fa facile:”Grazie a Di Pietro, scopriamo che con una mano il sistema dava e con l’altra toglieva. Questa è roba da servizi segreti deviati. Siamo caduti in un trappolone. Patelli è un povero pirla”. Poi raccoglie 200 milioni dai militanti in un pentolone di rame e li bonifica su un conto della Procura. Ma al processo si scopre che è stato Bossi a chiedere aiuto a Sama. Condannati sia il Senatur sia il Pirla.
Un’altra volta, per finanziarsi, la Lega mise in vendita le zolle del prato di Pontida: fallimento totale. Poi fondò la banca Credieuronord, per sottrarre i risparmi padani alle grinfie dei banchieri rapaci: l’istituto – usato anche per riciclare miliardi rubati al Tribunale fallimentare – fallì all’istante, con una scia di risparmiatori truffati. Ed evitò la bancarotta solo perché la rilevò Gianpiero Fiorani, il banchiere di Lodi, in cambio dell’appoggio leghista al doppio mandato per il governatore Fazio (costretto a dimettersi per lo scandalo prima di finire il primo). Allora i finanzieri del Carroccio ebbero l’ideona di battere moneta contro l’odiata lira: nacque il tallero padano, detto anche calderòlo in onore del noto economista che l’aveva pensato. Ancora peggio andò col mitico villaggio “Skipper” in Croazia che doveva garantire ai nordisti vacanze sicure, al riparo da négher e terùn, e rimpinguare le esangui casse del partito. L’astuta operazione, condotta personalmente dagli on. Bossi (con signora), Stefani e Balocchi, che avevano convinto un centinaio di dirigenti e militanti a investire decine di milioni di lire, fece bancarotta. Così, dopo Patelli, Stefani e Balocchi, arrivò il neotesoriere Francesco Belsito, calabro-genovese, già autista del ministro Biondi, dunque esperto in alta finanza.
Ora è passato alla storia per aver fatto sparire una parte dei 49 milioni di fondi elettorali, con investimenti in diamanti della Tanzania e in lauree farlocche in Albania per Bossi jr. detto il Trota. Frattanto, il nostro Savoini da Alassio, classe 1963, leghista della prima ora, si faceva le ossa come giornalista del Corriere mercantile su su fino alla Padania, dove tutti lo ricordano simpaticamente come “un nazista”, e all’ufficio stampa della Regione. Bossiano, poi maroniano e infine salviniano, ma sempre putiniano, divenne il portavoce del neosegretario Salvini. Sposò Irina Shcherbina da San Pietroburgo e fondò l’associazione Lombardia-Russia, con sede sul retro della sede di via Bellerio a Milano. Ogni volta che Salvini va a Mosca, se lo porta dietro come mascotte, anche se ora fatica a ricordare. Il “Savo” è sempre defilato, in fondo alle foto di gruppo, a mordere il freno. Il 18 ottobre, a Mosca al seguito di Matteo suo, la grande occasione della vita dopo trent’anni di onorata gavetta: un conciliabolo top secret con due italiani e tre russi sul petrolio da esportare in Italia e la cresta che riempirà finalmente le casse vuote della Lega. Lui pontifica sull’imminente new deal che rivoluzionerà l’Europa grazie a Matteo & Vladimir in cambio di un modico 4%. Nella foga, purtroppo, né lui né gli altri cospiratori s’accorgono di trovarsi nella hall dell’Hotel Metropol, infestato di cimici fin dalla Guerra fredda. Vengono tutti intercettati e il nastro finisce in pasto agli amerikani.
È il remake de Il compagno don Camillo, che si traveste da compagno Tarocci e vola con Peppone&C. in Russia. Lì la polizia li chiude a chiave in albergo, perché è caduto Kruscev a loro insaputa: infatti temono che il prete sia stato scoperto dal Kgb e cercano le leggendarie microspie in tutte le stanze, parlandosi a gesti. Quando poi ripartono per l’Italia, scoprono che i russi hanno sempre saputo la vera identità di don Camillo. Il quale, per contrappasso, deve poi portarsi in America Peppone travestito da monsignore. Un po’ come Salvini che, di ritorno da Mosca, volò tosto a Washington travestito da filoamericano antemarcia, facendo incazzare Putin e forse pure Savoini. Che, alla fine, può dirsi fortunato. Oltre alle cimici, da quelle parti sono anche specializzati in ricatti sessuali. Basta aver visto un altro film, Italians, con Carlo Verdone nei panni di un dentista che, a San Pietroburgo per un convegno, viene coinvolto in una serata sadomaso con una escort nella villa di un oligarca. Si aspetta un “soft massage sulla cervicale”. Ma lei, master and commander, lo colpisce sulla nuca col tacco 16 della scarpa. E lui: “Ma che te sei ‘mpazzita? Mica stai a attacca’ ‘n quadro! Mortacci tua! A cocainomane! A fija de ‘na mignotta! Tu matta totale! Tu malata mentale e forse anche molto drogata! I danni che fa ‘sta droga! A stronzi, ma che ve drogate a fa’?!”. Quindi all’incauto Savoini poteva capitare di peggio che un avviso di garanzia per corruzione internazionale. Fra l’altro solo tentata, perché pare che lui, diversamente da Patelli, alla Lega non abbia portato un rublo. Se quello era un pirla, lui che cos’è?