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 2019  luglio 13 Sabato calendario

La morte della Dc

Quante volte l’abbiamo detto, sentito dire e ripetere: «Non vogliamo morire democristiani». Oppure, celebre slogan di Indro Montanelli: «Turiamoci il naso e votiamo Dc». Formalmente, la Dc è davvero morta ieri, dodici luglio del 2019. Politicamente, il suo fantasma si aggira sempre irrequieto nel castello della politica ridotta a convulsioni, e più o meno tutti (...)
(...) la rimpiangono. I comunisti, oggi diessini e in parte democristiani si sentono figli della grande madre scudocrociata, ma barano e ci marciano molto. La Dc era una specie di missile a testata multipla che doveva il suo successo proprio a questa sua caratteristica della molteplicità. Era di destra o di sinistra? Era sia di destra che di sinistra. Ma era di centro? Poco. Ma considerata come somma dei numerosi vettori, era anche di centro. In realtà era «centrale», più che di centro. Tutto faceva capo a lei, perché la Democrazia cristiana aveva molti padri e un festone di Dna multietnico, politicamente parlando: sindacalismo, socialismo, interessi di conservatori e di tradizionalisti, innovatori e rivoluzionari ma anche reazionari: madamina, il catalogo è questo e ci troverà tutto e il contrario di tutto. Ricordo mio padre, conservatore democristiano di destra, accanito sostenitore di Montanelli, vide nascere nel 1960 il governo di Fernando Tambroni si infuriò: «Perché ci vogliono imporre un uomo di sinistra a tutti i costi?», gridava. Ma aveva torto, perché la Dc era come un caleidoscopio in cui tutti i panorami cambiano in un istante: benché Tambroni fosse un uomo della sinistra dc, imposto col pugno di ferro dal presidente della Repubblica dc (di sinistra) Giovanni Gronchi, non particolarmente noto per resistenza alle tentazioni della carne, andò in Parlamento e, visto che il suo partito lo mollava per mettersi di traverso a Gronchi, accettò i voti proibiti e radioattivi del Msi neofascista di Giorgio Almirante, che era fuori dal cosiddetto «arco costituzionale» ed era intoccabile e inavvicinabile, a quindici anni dalla fine della guerra. La nascita del governo sostenuto dai neofascisti provocò una insurrezione a Genova e poi in molte città italiane, passata alla storia come «moti del luglio 1960», con molti morti, scontri e allarme internazionale. 
La Dc si sciolse, alla fine della sua parabola curiosamente coeva rispetto a quella dell’Unione Sovietica, perché era diventata inutile e anzi un oggetto con cui in troppi, all’estero come in patria, volevano o fare i conti. E fu Tangentopoli. Ieri il proprietario del suo simbolo-bandiera, lo scudo crociato con la scritta Libertas, Gianfranco Rotondi molto legato a Silvio Berlusconi, ha ceduto l’intera attrezzatura araldica alla Fondazione Sullo (Fiorentino Sullo fu un democristiano di estrema sinistra) e dunque l’aspetto formale è risolto con una lapide tombale: la Dc è ufficialmente defunta da ieri. Ma l’esistenza storica e la sua attualità restano. Che cosa è stata la Democrazia cristiana? Il suo simbolo era uno scudo, un oggetto di guerra della saga dei crociati, teoricamente in guerra contro gli infedeli e i barbari, anche se i veri crociati si persero per strada e andarono a intrallazzare da veri democristiani a Costantinopoli, infischiandosene della religione. Genialità della Democrazia cristiana varata giusto un secolo fa dal sacerdote siciliano don Luigi Sturzo, un uomo geniale e segaligno, un antifascista convinto e un anticomunista intransigente. Allora non si chiamava Democrazia cristiana, ma Partito popolare. Popolare e davvero non populista. Era un osso duro e diventò segretario del partito che dopo la fine della guerra si propose col nuovo nome di Democrazia cristiana: il nome di un vero rassemblement di cattolici di tutte le opinioni, molti ex fascisti passati a sinistra come Amintore Fanfani, aretino e deriso per la sua bassa statura, ma uomo ferrigno, il giovane romano Giulio Andreotti, l’ex deputato cattolico a Vienna Alcide De Gasperi, il primo presidente cattolico della Repubblica Giovanni Gronchi (dopo il provvisorio De Nicola e il liberale Einaudi) e via via, tutto il gregge su cui sorvegliava l’occhio vigile del principe romano Eugenio Pacelli, ex segretario di Stato vaticano e uomo di destra, diventato papa col nome di Pio XII. Erano gli anni dello scontro frontale, comunisti e anticomunisti, America o Russia, credenti e atei, la scomunica papale contro i cattolici che votavano falce e martello, le madonne pellegrine che apparivano ovunque piangendo o sanguinando. La Dc era tuttavia un partito laico, ma la sua struttura lo rendeva unico: dentro la Dc potevi essere un duro sindacalista come Carlo Donat Cattin, un conservatore di destra, un socialista, quello che volevi. L’importante era restare democristiani, sostenere il governo e partecipare al turn over che rinnovava più o meno ogni anno la lista dei ministri e dei sottosegretari affinché tutte le correnti potessero avere benefici. Si è sempre detto che quella democristiana era un’Italia dai governi instabili. Era vero il contrario. Con la Dc al potere esisteva sempre uno stesso governo, il cui personale si alternava nei palazzi del potere per darsi il turno a vicenda secondo le rigide regole del «manuale Cencelli» che prevedeva la formula per l’assegnazione di ministri e sottosegretari, secondo corrente e peso interno. Senza litigare troppo. Poi venne la «svolta a sinistra» promossa dal nuovo papa Giovanni XXIII e dal presidente americano John Kennedy, che strappò i socialisti di Pietro Nenni dalla coalizione con il Partito comunista di Palmiro Togliatti (che aveva vissuto a Mosca come numero due del Comintern) uomo di Mosca anche se terrorizzato da Stalin. Fu per l’Italia conservatrice un trauma: la nazionalizzazione delle aziende elettriche e la realizzazione di piani economici della sinistra azionista nel Psi, in particolare il gruppo legato all’ingegnere siciliano Riccardo Lombardi, un altro uomo tosto e penetrante che guidava la sinistra non comunista. Poi riprese il vecchio andazzo fino a lambire il «Compromesso storico» inventato dal segretario del Pci Enrico Berlinguer, un piano accettato anche dagli americani per distaccare il Partito comunista dall’Unione Sovietica, che crollò con la cattura, interrogatorio ed esecuzione del leader democristiano Aldo Moro, destinato al Quirinale come garante e invece fatto fuori con una azione militare mai vista in Italia e che ha l’uguale soltanto nell’attentato di Capaci per eliminare Giovanni Falcone che indagava sul riciclaggio dei fondi del Partito comunista sovietico. Dopo gli anni della restaurazione dell’accordo con il Pci sotto la segreteria dell’«intellettuale della Magna Grecia» (copyright dell’Avvocato, ovvero Gianni Agnelli) Ciriaco De Mita, il mondo andò senza rendersene conto verso un evento catastrofico per la Democrazia cristiana: la fine della Guerra fredda e dunque la fine del ruolo privilegiato dell’Italia come Paese di frontiera fra Est e Ovest, dove tutto era permesso o tollerato. Nello stesso periodo anche il Partito socialista aveva cambiato pelle diventando un partito di sinistra ma anticomunista sotto la guida autorevole ma anche autoritaria di Bettino Craxi, ex pupillo di Nenni e protagonista del duello mortale con la Dc di De Mita. La fine della Guerra fredda significò tutto ciò che Francesco Cossiga aveva previsto dal Quirinale, e cioè la fine della stessa Dc del sistema Italia governata da un grande alveare di diversi e in apparenza anche opposti coalizzati nell’unica casa madre di piazza del Gesù, a due passi dall’altra casa madre del Pci in via delle Botteghe Oscure (il cadavere di Aldo Moro fu fatto trovare a metà strada fra i due palazzi in via Caetani). Cadde la struttura imperiale dell’Unione Sovietica, finirono i fondi fino a quel momento elargiti dal Cremlino ai comunisti ma anche i fondi americani alla Dc e agli altri partiti della formula «pentapartito». Un piano di resa dei conti fu preparato a Washington sotto il nome di operazione Clean Hands, Mani pulite, che in Italia diventò Tangentopoli. Una corte marziale fucilò in effigie sui giornali e in televisione tutti i capi democristiani e degli altri partiti della coalizione. La Dc fu decapitata, smembrata e arsa viva, sicché dal suo immenso corpaccione fuggirono tutti. Assistei alla minuscola assemblea con cui Mino Martinazzoli (sinistra democristiana di Brescia) tentò di costruire una scialuppa di salvataggio mentre Mario Segni, figlio del presidente della Repubblica Antonio, un grande democristiano sardo, non volle andare fino in fondo nella spallata al sistema che certamente lo avrebbe portato al potere, ma che fu bloccata dall’ultimo segretario Dc, cioè Mino Martinazzoli. La conseguenza fu che un solo partito, tenuto in salvo dalla macchina giudiziaria e cioè l’ex Pci di Achille Occhetto che lo aveva ribattezzato Pds, aveva tutte le carte per prendere il posto della Dc e inaugurare una stagione di estrema sinistra statalista, benedetta allora dall’America. La «discesa in campo» in extremis e con l’impresa mirabolante della coalizione impossibile con Lega e Alleanza nazionale che inaugurò la stagione di una nuova Italia, quella dopo la fine della Dc, ed è la storia dell’ultimo quarto di secolo.