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 2019  luglio 13 Sabato calendario

Intervista allo chef Nobu Matsuhisa

«Bisogna sempre andare avanti, anche solo di un millimetro al giorno». Nobu Matsuhisa è uno che non si scoraggia (quasi) mai. Scontato, si dirà, se possiedi un impero di quasi 50 ristoranti, e una manciata di alberghi, in tutto il mondo. Se il tuo socio è Robert De Niro. Se del tuo sushi vanno pazzi Madonna, Armani, Benigni, Tom Cruise. Se sei persino finito in un film di Scorsese (Casinò) e in uno prodotto da Spielberg (Memorie di una geisha).
Ma prima del successo, il superchef giapponese, oggi 70 anni, è inciampato più volte: espulsione da scuola per aver provocato un incidente quando ancora non aveva la patente, delusioni (ma anche riconoscimenti) in Perù e Argentina, incendio di un ristorante in Alaska, pensieri di morte, suicidio del migliore amico. 
Tutte le volte è tornato nel Giappone che aveva lasciato poco più che ventenne, ha trovato un aiuto (emotivo e finanziario) ed è ripartito. «Non ho mai cercato di arrivare così lontano - ci racconta seduto sulle belle poltroncine color arancio del ristorante Nobu Milano, che ha aperto nel 2000 con Giorgio Armani, durante una serata omaggio al menu omakase -. Ho solo cercato di fare il mio meglio, giorno dopo giorno». Nella sua recente autobiografia, Nobu (HarperCollins), racconta di come abbia pensato di avercela fatta solo nel 2013, all’inaugurazione del Nobu Hotel di Las Vegas. Un’altra avventura intrapresa con De Niro, che gli ha «letteralmente cambiato la vita».
De Niro ha detto che non permetterà mai al presidente Trump di entrare in un vostro ristorante. Lei è d’accordo?
«Il mio sogno è sempre stato quello di preparare sushi per tutti».
Qual è il ricordo più caro che la lega a De Niro?
«Direi l’apertura del nostro primo Nobu a New York».
La vedremo in un altro film?
«Chi può dirlo. Per ora lasciamo la recitazione a Bob».
De Niro le ha mai cucinato qualcosa?
«Oh no, io sono uno chef che ha fatto l’attore. Lui è un grande attore ma non cucina». 
Le due professioni hanno qualcosa in comune?
«Sì, in entrambe bisogna migliorare le proprie abilità, con un nuovo ingrediente o un nuovo ruolo».
E Armani ha mai cucinato per lei?
«No, è uno stilista! Però mi ha disegnato la mia giacca da chef. La uso nelle occasioni speciali».
A Nobu Milano, insieme allo chef Antonio d’Angelo e ai colleghi di Montecarlo e Londra, ha fatto un menu omaggio all’omakase. In cosa consiste? 
«Omakase è una parola giapponese che indica la fiducia nello chef. Che improvvisa un menu in base al tipo di cliente che si trova davanti».
Mi può fare un esempio? 
«La prima cosa è capire se ci sono allergie. E poi i gusti».
Basta? Niente a che fare con la personalità quindi?
«Ha a che fare con l’osservare. Bisogna sempre guardare l’espressione sul viso del cliente. Nei miei ristoranti c’è sempre un banco sushi in cui chef e avventori sono vicini. Io sono felice se i miei clienti sorridono».
Ha fatto conoscere la cucina nikkei, che coniuga Giappone e Perù, in tutto il mondo. Quali cucine le piacerebbe provare a mescolare oggi?
«Qui a Milano ho provato la tagliata di carne. Semplice, con olio, sale e rosmarino. Vorrei provare a farla nello stile giapponese. Con carne o pesce».
Cucina a casa?
«Una, massimo due volte all’anno, a seconda dell’ispirazione: Natale o primo dell’anno, per la mia famiglia e un paio di amici. Ho il mio banco del sushi in casa a Los Angeles».
Cosa pensa degli chef in tv?
«Che io sono uno chef, non un intrattenitore. La cucina non è competizione».
Nella sua autobiografia racconta che quand’era giovane il sushi era una leccornia che si ordinava solo quando c’erano ospiti. E che i sushi chef erano degli anticonformisti. Si definirebbe così?
«Il sushi è passione e tecnica. È semplice e delicato».
Essenziale insomma. Come lui. Che alle domande risponde sorridendo ma con una frase, massimo due. In cui condensa un fatto e limita i commenti. Tranne quando si parla di sushi, la sua passione fin da quando era adolescente. «Non servono quasi utensili. Solo un coltello e queste dieci dita. Ma la tecnica e i tempi devono essere perfetti. Le faccio vedere». E lì, mentre mostra come fra pesce e riso si debba sempre mettere una punta di wasabi, e come sia peccato mortale intingere il riso nella soia, nessuno lo ferma più.